L’essere era ancora confuso, non si aspettava tutte quelle sensazioni. Frugò a fatica nei ricordi di Michael, «emozioni» le chiamava. Aveva appena scaraventato il guscio fuori dalla finestra che ne era stato travolto: ogni odore, ogni colore, ogni cosa che sentiva e toccava lo facevano reagire in modo diverso. Ogni input era una scoperta, alcune piacevoli, altre strane. Era meraviglioso.
Si fissò la mano, era crollato sul letto ed alla mattina quella persona, la «mamma» la chiamava Michael, aveva scrollato in suo corpo, confuso aveva allungato un braccio, il contatto con la gamba di lei, coperta da un tessuto stretto ed aderente, era stato piacevole. La donna però lo aveva subito colpito sulle dita dicendo qualcosa che non aveva capito. Un piccolo dolore ma… che sensazione meravigliosa! Doveva calmarsi (cos’era la «calma»?) trovare il tempo per acceder ai ricordi di Michael, ma la madre lo aveva letteralmente spinto fuori di casa ed ora era lì, in mezzo alla strada, che si fissava la mano inebetito.
«Che cazzo fai lì come un idiota?»
Un uomo (papà) si stava avvicinando, stringeva in pugno uno strano arnese lungo e metallico (cacciavite), i ricordi arrivavano ancora con un certo ritardo, doveva concentrarsi. L’uomo non gliene diede il tempo, lo afferrò e lo trascinò dentro una struttura con un’ampia porta (officina).
«Che cazzo hai? Ti sei drogato?» l’uomo continuava ad urlare.
«Ho visto tua madre! Oggi si era proprio conciata come un troia! Ma non si rende conto che rende ridicolo pure me? I miei amici mi deridono!»
L’uomo puzzava di una qualche sostanza, ne esalava l’odore con il respiro.
«Ma che cazzo hai? Mi ascolti?»
L’uomo lo scrollò forte, poi lo colpì sul viso con la mano sinistra, nella destra impugnava ancora il cacciavite.
Dolore.
Meraviglioso dolore!
L’essere perse il controllo, ne voleva ancora, voleva più dolore. Si lanciò col viso contro il cacciavite, lo sentì entrare, sentì il bulbo oculare esplodere. Urlò in estasi, era bellissimo.
Il suo corpo però reagì in maniera scomposta, il sangue usciva copioso. Il padre era come paralizzato, lasciò andare l’atrezzo. Non rimase conficcato ma cadde a terra. Quello che un tempo era stato Michael barcollò camminando all’indietro. Cadde ma delle braccia lo sorressero. Poi perse i sensi.
L’essere riaprì gli occhi piano. Riaprì l’unico occhio che gli era rimasto. Era in un letto, la madre lo stava guardando, le usciva del liquido dagli occhi.
«Tesoro!» si buttò contro di lui trattenuta, a stento, da un’altra donna con una divisa bianca «Non ti preoccupare, vedrai si sistemerà tutto, vedrai che metteremo un occhio che sembrerà vero, non ti preoccupare! Quello la pagherà, tranquillo, marcirà in galera!»
La donna sembrava impazzita. «Ospedale» ricordò lui, era in un ospedale, si era fatto del male e lo stavano curando. Doveva riprendersi.
L’infermiera allontanò la madre, un uomo con una divisa bianca gli posò delicatamente la mano sulla spalla.
«Devi essere coraggioso» gli disse «ma vedrai che ne uscirai, ora cerca di riposare.»
Lo lasciarono solo, in penombra. I ricordi cominciavano lentamente ad assestarsi. Evidentemente quelle «emozioni» rallentavano il processo. Rifletté, doveva superare quel desiderio del dolore, aveva già danneggiato gravemente il suo corpo e non aveva la possibilità di cambiarlo ulteriormente. Si sedette faticosamente sul letto, il desiderio del dolore era affievolito, in parte perché la ferita pulsava ancora, nonostante intuisse che gli avessero somministrato qualcosa per calmare la sofferenza… purtroppo. Doveva trovare un palliativo, un qualcosa che sostituisse quella sensazione insana. La cosa più urgente, però, era recuperare i ricordi di Michael. Doveva capire cosa stava succedendo e non farsi trovare impreparato. Ci mise quasi tutta la notte.
Al mattino le cose erano più chiare. Il dolore era aumentato, ed era molto piacevole, ma lui era lucido. Entrò la madre, aveva il trucco sfatto ed era scalza, evidentemente aveva dormito in ospedale e non si era rimessa le scarpe, sembrava un po’ più calma.
«Come va piccolo?» gli chiese inginocchiandosi di fianco a lui.
«Meglio» rispose cercando di apparire sofferente (in realtà si stava godendo le scariche di dolore).
Nel frattempo era entrato pure il dottore.
«Ciao Michael, sono il dottor O’Connor.» si presentò «Ti senti meglio? Provi dolore?»
«Non molto» mentì l’essere «il mio occhio…»
Cercava di apparire confuso e pareva ci riuscisse bene. La madre gli strinse la mano ed anche il dottore gli toccò la spalla.
«Devi essere coraggioso Michael» iniziò O’Connor «l’occhio purtroppo lo hai perso, sei stato fortunato però: il cacciavite poteva penetrare ulteriormente ed ucciderti. Anche il viso non ha subito ferite gravi. Esteticamente tornerai come prima. Per fortuna l’occhio destro non ha subito danni ed è in buone condizioni.»
Erano tutti fattori che l’essere aveva già analizzato ed accettato, ma si finse desolato meglio che potè. La madre ricominciò a piangere.
«Se te la senti» riprese il dottore «ci sono due signori che ti vorrebbero fare alcune domande su quello che è successo.»
Michael girò la testa. Sulla soglia c’erano un uomo in giacca e pantaloni ed una donna con dei jeans stretti ed un giubbotto marrone. Entrambi erano di mezza età, lui alto e spigoloso mentre lei robusta, ma non grassa, e decisamente mascolina.
«Poliziotti» pensò l’essere ed annuì.
Il dottor O’Connor allontanò la madre che fissava in cagnesco la coppia di agenti, evidentemente ci aveva già discusso.
L’uomo si sedette vicino al letto, odorava di dopobarba ed aveva i capelli folti e tagliati corti, brizzolati sulle tempie. La donna si mise in piedi al fianco di lui, era senza trucco, escluso un rossetto piuttosto forte, i capelli erano nerissimi con un taglio maschile, si sforzava di rimanere impassibile.
«Ciao Michael» cominciò lui «io sono il detective Jackson e lei è il detective O’Maley, te la senti di raccontarci qualcosa di quello che è successo?»
Il ragazzo si finse confuso:
«Io… Credo di sì.»
L’uomo sembrò rilassarsi sulla sedia:
«Cominciamo da quella mattina, tua madre i ha detto che eri, come dire… un po’ strano.»
Michael si era preparato, continuò a fingersi confuso:
«Avevo dormito poco… male… Il giorno prima un’interrogazione mi era andata malissimo (potevano verificare facilmente le cosa). Alla mattina mi sono svegliato intontito, non so che è successo… Devo aver toccato la mamma e lei si è alterata…»
Il detective si girò verso la collega ed i due si scambiarono uno sguardo, evidentemente avevano già conosciuto Carol e non faticavano a credergli.
«Mi ha letteralmente spinto fuori di casa e mi sono ritrovato in strada a raccogliere le idee.» continuò il ragazzo.
«Ed è a quel punto è arrivato tuo padre?» suggerì l’uomo.
«Sì era peggio del solito? Urlava…»
«Vuoi dire che ti aveva aggredito altre volte?»
«Sì… No… non “aggredito”, ma spesso mi insultava, insultava la mamma e mi urlava contro. Spesso…»
A quel punto Michael cercò di portarsi le mani al viso ma il poliziotto lo trattenne dolcemente. Probabilmente non voleva che si toccasse la medicazione. Purtroppo l’essere non poteva controllare le lacrime ed una mano sul viso gli avrebbe fatto comodo. Incalzò prudentemente il detective:
«Però stavolta era peggio, mi ha preso, mi ha trascinato dentro l’officina. Diceva che la mamma era una troia e mi ha picchiato. Poi… poi… non ho visto…»
Con uno scatto ed un urlo si liberò dalla presa dell’uomo ed, afferrandosi il volto, sprofondò nel cuscino. La ferita gli mandò delle fitte quasi estatiche.
A quel punto il dottor O’Connor e Carol entrarono a forza nella stanza ed intimarono agli agenti di uscire.
«Per oggi è abbastanza.» intimò il medico e preparò una dose di morfina.
I due poliziotti uscirono e si diressero all’esterno. Jackson si accese una sigaretta.
«Che ne dici?» chiese alla collega.
«Non lo so» rispose O’Maley «i fatti sono abbastanza chiari ma, non so, qualcosa nel ragazzo non mi convince»
«Mmmm…» fece l’uomo «ricapitoliamo: la madre ha detto che era confuso e che lei si era preoccupata, la cosa non le ha impedito, però, di sbatterlo fuori di casa. In questo credo molto di più al ragazzo, probabilmente ha fatto qualcosa che ha irritato la donna.»
«Non che serva molto, quella è una iena.» disse O’Maley.
«Già, comunque la donna “preoccupata” butta il figlio fuori di casa, lo precede e se ne va senza degnarlo di uno sguardo.»
«Ed, effettivamente, si era conciata proprio bene, tanto da farsi notare dall’ex marito che lavorava di fronte» aggiunse la detective non senza malizia.
Jackson ripensò alla minigonna aderentissima di Carol ed alle quintalate di trucco sciolto sul suo viso. Annuì.
«Il padre, che è ubriaco, vede la donna passare e si irrita, poi vede il figlio in mezzo alla strada e se la prende con lui trascinandolo in officina con un cacciavite in mano. Su questo abbiamo dei testimoni. A questo punto si sentono le grida dell’uomo, che si accanisce sul ragazzo, e poi l’urlo. Il ragazzo esce urlando con un occhio forato l’uomo lo segue,senza cacciavite. Il ragazzo è soccorso e l’uomo fugge. Viene trovato dagli agenti in un bar poco distante, il cacciavite con le sue impronte viene rinvenuto nell’officina, coperto di sangue.»
«Esatto.» annuì O’Maley «però, secondo il padre, il ragazzo si comportava come se fosse drogato e si sarebbe lanciato da solo contro il cacciavite.»
«Sì ma non regge» rispose Jackson «se il ragazzo avesse avuto idee suicide dovrebbe aver dato qualche segnale. Invece risulta fin troppo pacato, tenendo conto della famiglia che ha.»
«Ma potrebbe aver cercato di ferirsi volontariamente per punire il padre e proteggere la madre. A volte succede. Potrebbe aver improvvisato tutto, magari cercando di procurarsi un graffio.»
«Avrebbe rischiato troppo esponendo la faccia a mio parere, è vivo per miracolo. Inoltre non dimenticare che aveva una ecchimosi anche sull’altra guancia: il padre lo aveva già colpito. Cosa che si è guardato bene di dire. Per di più, mentre il ragazzo era pulito come un angelo, il padre aveva in corpo circa un barile di gin. Non regge a parer mio.»
La detective riflettè:
«Probabilmente hai ragione, è solo che mi ha fatto una strana impressione.»
«Parliamo di un ragazzo chiuso, con una famiglia disastrata e che ha appena perso un occhio. Non poteva essere “normale”»
«Già.»
«Su non te la prendere, ti offro il pranzo.»
La donna sorrise:
«Però, secondo me, le gambe della madre le hai notate.»
Jackson la guardò perplesso:
«Certo! Pure il culo era un gran bel vedere però, lo giuro, non riuscivo a distogliere gli occhi dal suo naso!»
Mentre si avviavano alla macchina O’Maley stava ancora sghignazzando.
Il giorni in ospedale passavano pigri. Carol si era presa un permesso dal lavoro e passava lì tutto il tempo. Con grande sollievo di Michael aveva preso a vestirsi in maniera meno appariscente, solo in seguito il ragazzo scoprì che lo faceva per il dottor O’Connor:
«Non è certo il tipo che apprezza le minigonne da zoccola» gli aveva confidato la madre in una conversazione. Purtroppo i suoi sforzi per apparire elegante e raffinata non diedero risultati. Negli ultimi giorni prese a presentarsi in tuta da ginnastica con un cipiglio imbarazzante.
Vennero anche i compagni di scuola. L’essere fu molto incuriosito da Samantha, in base ai ricordi di Michael sapeva che avrebbe dovuto provare desiderio, capiva cosa significasse ma a lui la ragazza non faceva nessun effetto. La trovava sciapa.
Però le visite portarono un risvolto interessante: mentre alcuni compagni erano al suo capezzale arrivò Janette, una ragazza piuttosto robusta con un pesante paio di occhiali. Nell’entrare in camera inciampò e sbatté violentemente la faccia contro lo stipite della porta, accorse pure un infermiere ma non era nulla di grave. Però Michael aveva notato l’espressione di sofferenza della ragazza e, cavolo, il suo corpo aveva reagito col piacere. Ripensandoci, in seguito ebbe pure un’erezione.
Quella poteva essere una via percorribile: se il dolore degli altri gli provocava piacere forse non avrebbe cercato il suo. Per il momento le fitte della ferita bastavano ad appagarlo, ma stavano calando e lui aveva la spiacevole sensazione che quello sarebbe stato un bisogno. Purtroppo nemmeno procurare delle sofferenze fisiche ad altre persone era comodissimo. Non viveva nel medioevo, ora c’erano la polizia e le indagini. Non poteva permettersi di attirare troppo l’attenzione. Ma comunque ora aveva una seconda opzione. Non era male.
Alla fine fu dimesso e tornò a scuola. Avrebbe dovuto aspettare per avere un occhio cosmetico ma a lui la benda non dispiaceva. Carol si rifiutava di aiutarlo a fasciarsi, disgustata, ma imparò presto a fare un buon lavoro. Il suo nuovo aspetto non era sgradevole. Aveva investito i soldi che la madre gli aveva regalato per la guarigione per cambiare lievemente il suo look ora portava pantaloni più larghi e, spesso, tute da ginnastica. Nessuno ci faceva particolarmente caso.
Il fatto era che aveva avuto un’idea niente male: aveva rubato qualche paio di collant alla madre, ne aveva talmente tanti che non se ne sarebbe mai accorta, e li aveva tagliati per ottenere delle fasce che avvolgeva attorno alle gambe. Le riempiva con chiodi, puntine da disegno e granelli di sale. Il nuovo vestiario nascondeva agevolmente il cilicio improvvisato. Non lo usava sempre e dava alle ferite il tempo di guarire, cambiando spesso la posizione della fascia sulle gambe, ma serviva allo scopo. Di fatto era rilassato, cosciente e lucido.
Un giorno che, appunto, approfittando dell’intervallo stava recandosi in bagno per indossarlo sbatté quasi contro a Samantha ed Emma che, nascoste dietro alla porta fissavano il cellulare.
«Ho interrotto qualcosa?» chiese improvvisando un sorriso mentre nascondeva velocemente la calza nella tasca dei pantaloni.
Emma aveva uno sguardo malizioso.
«Oh, è solo Michael. Dai Samantha facciamoglielo vedere.»
L’altra parve contrariata.
«Vedere cosa?» chiese lui.
La curiosità era un’altra sensazione che non gli dispiaceva.. Inoltre quel «solo Michael» usato da Emma lo aveva spronato. Cos’era quella cosa che lui poteva vedere perché era «solo Michael»? Riluttante Samantha gli avvicinò il telefono.
«Se ne fai parola con qualcuno ti giuro che hai finito di vivere.» gli disse.
C’era qualcosa di urgente nella sua voce che rendeva serio l’avvertimento. La cosa lo incuriosì ancora di più. Sullo smartphone scorreva un video delle ragazze che eseguivano dei passi di danza. La musica era quella di «Dirty Dancing» ed in effetti le movenze delle due ballerine erano molto sensuali. A questo bisognava aggiungere che indossavano solo lingerie, autoreggenti nere e tacchi a spillo. Inoltre erano truccatissime.
Era quasi deluso e dovette ricomporsi per mascherarlo. Riuscì a fingersi imbambolato. Il concetto di sesso non era nella sua natura e, per lui, quel video era eccitante come i cartoni animati di Topolino. Anzi, provava quasi disprezzo per le due compagne.
«Terra chiama Michael!» disse Emma ridacchiando.
Lui si finse scosso:
«Wow, per cosa… chi… lo avete fatto?
«Per nessuno» rispose brusca Samantha «è un gioco tra noi due, te lo ho mostrato solo perché Emma si fida di te.»
«Tranquilla» riprese l’amica «Michael ha mille difetti ma sa tenere un segreto.»
Era vero, Michael aveva sempre coperto Emma, quando aveva cominciato a fumare di nascosto, quando aveva avuto il primo ragazzo, quando credeva (sbagliandosi) di essere rimasta incinta. Al momento lui non aveva nessun motivo per cambiare la cosa, anche se non avrebbe avuto problemi nel farlo.
«Beh, comunque ora dobbiamo tornare in classe che la Scully oggi è particolarmente nervosa» disse Samantha.
«Vi raggiungo devo andare in bagno.» rispose lui.
«A fare cosaaaa?» chiese maliziosa Emma, anche Samanta ridacchiò.
Lui sorrise e senza rispondere, entrò in bagno e si sistemò il cilicio.
Erano passati alcuni giorni da quella scena, era sera e lui e Carol stavano finendo un pranzo cinese da asporto. Era stata un’idea della madre dopo che aveva scoperto una app di una ditta di Hong Kong che vendeva vestiti contraffatti a poco prezzo, praticamente aveva cenato con lo smartphone in mano scegliendo gonne e camicette. Anche il telefono di Michael trillò. Sul display apparve un messaggio di Emma che gli ricordava un appuntamento per l’indomani: sarebbe stato venerdì e, dopo la scuola, si sarebbero trovati tutti in un bar lì vicino per gustare il primo gelato della stagione. L’estate era alle porte.
Meditò insofferente sulla cosa: Michael sarebbe stato felice per l’evento, a lui importava molto di meno, ma constatò che non era nemmeno dispiaciuto. Ogni novità era fonte di nuove emozioni da scoprire ed, inoltre, conoscere e capire meglio i suoi compagni di classe gli sarebbe tornato utilissimo. I ricordi del ragazzo su di loro erano alquanto imprecisi, probabilmente tendeva ad idealizzare troppo le persone.
Come si sarebbe sentito se avesse saputo che Emma si era scoperta bisessuale e frequentava una ragazza del quinto anno, che Samantha si vedeva regolarmente con un ragazzo ormai maggiorenne (la cosa gli avrebbe spezzato il cuore), che Jeko probabilmente era omosessuale e provava una vaga attrazione per lui. Tutte cose che aveva scoperto con facilità chiacchierando e prestando attenzione. Le debolezze dei singoli membri di un gruppo sono utili per dirigerlo, questa cosa la sapeva da moltissimo tempo.
Nel frattempo Carol aveva realizzato che i tempi di spedizione del sito erano sull’ordine di un mese o due, quindi tutte i capi estivi che aveva ordinato gli sarebbero giunti a fine stagione. Stava già sbraitando contro i «musi gialli» e gli involtini primavera. Michael scrisse due righe di risposta ad Emma e si ritirò in camera da letto.
Prima di coricarsi si guardò allo specchio, il gonfiore era quasi del tutto sparito e l’occhio di vetro era quasi perfetto. Non gli piaceva moltissimo il fatto che fosse fisso nell’orbita, ogni tanto assumeva delle espressioni ridicole, ma faceva il suo lavoro estetico. Però portava sempre con sé una piccola benda bianca, con due elastici, che usava in classe e con i compagni, si sentiva più a suo agio. Lo avevano già soprannominato «Capitan Jack Sparrow»
Il giorno dopo, come da programma, si ritrovarono tutti da «Joe’s» l’unica gelateria decente a Rackete. Avevano occupato due tavoli e stavano già ordinando quando arrivò Emma. La ragazza si scusò in fretta e disse che aveva un impegno, li avrebbe raggiunti più tardi.
«Si sta vedendo con uno, secondo me» disse Samantha tra l’imbronciato ed il geloso.
Il suo boyfrend non le dedicava molto tempo ed i loro incontri si limitavano al sesso in macchina. Questo lui lo aveva scoperto dalla ex del ragazzo che, guarda caso, lavorava al panificio vicino a casa sua.
«O con una.» le rispose sorridendo, era seduto vicino a lei.
«Cretino!» sorrise la ragazza che non era al corrente delle «abitudini» dell’amica.
Comunque la risposta non era quella. La ragazza di Emma era fuori città per qualche giorno, glielo aveva confidato lei stessa, quindi doveva avere un altro tipo di impegno.
Passò il pomeriggio a chiaccherare con tutti. Jeko era un vero nerd e le cose che sapeva sulla rete a Michael interessavano tantissimo. Il web lo affascinava perché, come concetto, gli era estraneo e familiare allo stesso tempo. Un gigantesco alveare disperso nell’etere. L’unico problema era il non cadere nel discorso «videogiochi» altrimenti Jeko non la avrebbe più finita.
La sera arrivò velocemente. Emma non si era fatta più vedere, evidentemente era stata trattenuta. Samantha riferì piccata che non si degnava nemmeno di rispondere ai messaggi.
Quando arrivò a casa Carol lo spaventò balzando letterlamente fuori da camera sua:
«Che ne dici? Mi stanno bene? Sembro troppo infantile? Provocante?»
Lui ci mise un po’ a focalizzare l’argomento. Sotto una gonna di jeans la madre indossava un paio di calze a rete molto fitta di colore neutro. Evidentemente dopo l’avventura con la app cinese aveva deciso di sfogarsi con lo shopping fisico.
«No, ti stanno molto bene» rispose pronto.
«Sì, e non sono calde.» disse lei con un risolino infantile «Devo assolutamente prenderne altre!»
A Michael non erano mai importate le manie di sua madre e se ne disinteressava ma lui, che vedeva Carol senza il filtro del rapporto madre-figlio, ci aveva messo poco a capire l’assurda ossessione per calze e collant della donna. Dopo i quarant’anni, infatti, le avevan cominciato a dolere molto le gambe ed, in concomitanza con la cosa, si erano coperte di una ragnatela di venuzze blu.
Il dolore Carol lo avrebbe sopportato come al solito: maledicendo tutto e tutti, ma vedere quei segni antiestetici sulle gambe era stato l’equivalente di una pugnalata al cuore. Visto che le considerava, forse non a torto, la sua arma di seduzione principale aveva cominciato a coprirle in maniera ossessiva. Ovviamente l’arrivo della stagione calda era sempre un problema. L’averlo parzialmente risolto col nuovo acquisto la rendeva allegra.
«Ha chiamato la madre di Emma» gli urlò dalla «non è ancora rientrata, tu la hai vista?»
«Solo cinque minuti, quattro ore fa.» rispose.
La donna mise la testa fuori dalla porta:
«Visto che hai fatto tardi anche tu avevo pensato che vi foste appartati insieme. Cavolo è una bella ragazza!»
«Sì» pensò Michael «oggi che sei tutta felice per le calze nuove Emma ti va a genio, ma immagina se te la portassi a casa, dopo due giorni sarebbe già “una troietta vestita di pelle“» sorrise. Però era strano che l’amica si attardasse, «problemi suoi» si disse.
In quel momento la madre uscì dalla stanza, le calze ora erano nere ed indossava un vestito accollato con la gonna a metà gamba.
«Devi uscire stasera?» chiese Michael.
La cosa sembrò turbarla lievemente, dopo Matthew non aveva più avuto nessuna storia, ma si riprese subito:
«No!» disse brusca «Sto provando il vestito per il processo, sarò tra due settimane. Voglio che quello stronzo sbavi! Voglio che sappia cosa ha perso!»
Carol gli piaceva: era totalmente egoista e, nel suo mondo, gli altri erano tutti, nessuno escluso, semplici comparse. Anche ora, nel processo all’uomo che le aveva accecato l’unico figlio, la sua unica priorità era di apparire come una star. Egoismo puro, come il suo. Gli piaceva.
Salutò la madre, rassicurandola sul vestito ed andò a preparare la cena. Penso un attimo ad Emma concludendo che, ovviamente, non gli importava dove fosse finita.
Ti sei perso il primo capitolo? Lo trovi qui.
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