Immaginare una città come Rakete è facile: una pianura grigia, piena di cubi di cemento, che circonda una collina formando un mostruoso e piatto anello, simile alla ventosa di un polpo gigante. Il tempo è sempre uggioso ma gli abitanti godono di un certo benessere grazie all’attigua zona industriale ed, ovviamente, il denaro aiuta a tener alto il morale. L’unica attrazione, se si escludono i due centri commerciali in perenne guerra tra loro, è appunto la collina. Niente di più che un ammasso di erba e terra con qualche quercia rinsecchita sparsa qua e la, soltanto un sito archeologico (ovvero un muricciolo di probabile origine celtica) da anni impedisce alla città di fagocitarla. Ovviamente, come ogni collina con annesso «cimiteri celtici» anche quella di Rakete ha la sua leggenda a base di mostri e caverne perdute, ma finora il mito ha retto anche ai più moderni sistemi di ricerca.

Michael si svegliò scosso dalla solita mano:
«Alzati, svelto, che la scuola non aspetta!»
La madre lo stava scrollando energicamente e, davanti ai suoi occhi assonnati, si presentò il solito spettacolo: una donna sulla quarantina con dei capelli arruffati biondo tinto che indossava dell’intimo dozzinale ed un paio di collant color carne, con cui si ostinava a dormire. La natura aveva dotato Carol Tatcher di un bel corpicino, minuto e sodo, che resisteva senza problemi all’età, peccato che poi si fosse accanita sui tratti del viso che erano decisamente rigidi, quasi equini, e valorizzati da un naso più che imponente. La donna non attese che Michael desse altri segni di vita e si diresse, ad ampie e nervose falcate, verso il bagno.
Il ragazzo abbandonò con fatica le coperte e si avvicinò alla finestra, strofinò il vetro appannato con la manica del pigiama e constatò, senza grosse sorprese, che la solita triste pioggerellina autunnale non accennava a smettere. Si diresse poi verso lo specchio che, assieme ad uno sgangherato letto di rete, un armadio dell’Ikea ed un tavolino adibito a scrivania (corredato da una sedia da cucina), faceva parte del povero arredamento della sua stanza. L’aspetto di Michael rispettava abbastanza fedelmente la genetica materna: un volto lungo e tirato con un grosso naso aquilino incorniciato da capelli neri e fini che lui si ostinava a tenere lunghi. Il corpo era sottile e sgraziato, benché il ragazzo avesse una buona dose di forza, di sicuro non aveva ereditato nulla dal padre, alto e muscoloso. La cosa faceva nascere parecchi sospetti, non solo a lui. Sbuffando si infilò una maglietta nera, che avrebbe avuto bisogno d’una lavata, ed un paio di jeans lisi. Raccolse la felpa degli Iron Maiden da terra e si avviò verso la cucina al piano di sotto.
Nel frattempo la madre aveva completato la sua trasformazione, collant ed intimo erano spariti sotto un completo giacca e pantalone color pesca ed una cospicua dose di trucco addolciva lievemente i tratti del viso. Senza salutare il ragazzo uscì in fretta ed in furia lamentandosi di qualcosa di non ben definito.
Michael si preparò il caffè che bevve velocemente, agguantò lo zaino e si avvio verso l’uscita del palazzo. Arrivato in strada cercò di allungare il passo il più possibile, erano due giorni che riusciva a sgattaiolare via.
«Quella troia di tua madre è passata a piedi ragazzo! Non ha più il cucciolo che la viene a prendere?»
Oggi la fuga non era riuscita.
La madre ed il padre erano divorziati, lei si era tenuta l’appartamento ma lui aveva conservato l’officina sul lato della stessa via. Il ragazzo si appoggiò alla saracinesca:
«Lo sai che sono anni che non mi impiccio della sua vita, papà.» disse in tono sottomesso.
«Come se fosse possibile!» rise l’uomo «Non mi dirai che non noti quando si tromba qualcuno, a volte li sento litigare fin qui!»
Era vero: i boyfriend della madre duravano poco e le litigate erano memorabili, sempre. Però non gli piaceva che il padre facesse quel teatrino.
«Ora devo andare papà, altrimenti arriverò tardi a scuola.»
«Vai sfigato! Tanto un dottore non lo diventerai mai ed, un giorno, verrai qui a supplicare per un lavoro. Ma prima dovrai tagliarti quei capelli di merda e cambiare il modo di vestirti: sembri una schifosa checca!»
Come al solito i vicini non si erano voluti perder la scena, e le risate della signora Smith e di Jobbs, il giornalaio, lo seguirono nella via.
Sulla strada incontrò gli altri compagni, si salutarono. Vennero raggiunti anche da Samantha ed Emma, le due ragazze più belle del loro anno. Come al solito erano uno splendore: la prima con i capelli castani lunghissimi ed un giubbotto di Calvin Klein che finiva cortissimo sopra il fondoschiena inguainato dai jeans aderenti. Emma invece portava un caschetto nero, i leggins in similpelle, col giubbotto dello stesso materiale, completavano il suo look dark. Michael non riusciva a guardare Samantha senza che i suoi ormoni impazzissero, con Emma era diverso: erano cresciuti insieme ed avevano molti gusti musicali in comune.

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Mentre si sedeva al suo posto, nell’ultimo banco, l’umore del ragazzo era un po’ migliorato. Con i suoi compagni di classe andava d’accordo. Nessuno lo trattava come uno sfigato, certo nessuna ragazza gli aveva mai dato spago, nemmeno quella secchiona di Janette con gli occhiali spessi come fondi di bottiglia, ma in classe si sentiva bene. Forse la vita non era così schifosa. Dopo la lezione di biologia col professor Jhonson era il turno della Scully: la terribile insegnate di storia.
«Michael, è un po’ che non ti sento. Vieni alla cattedra!»
La vita era una merda.
Le lezioni si protrassero fino al pomeriggio ma, quando finalmente finirono, l’umore del ragazzo non era migliorato. Quasi non salutò gli amici mentre si avviava verso casa. Quell’insufficienza in storia gli sarebbe costata giorni e giorni di fatica. Al primo bivio si diresse verso la collina, non aveva voglia di rientrare in casa, sua madre sarebbe arrivata a momenti ed avrebbe preso a lamentarsi di tutto e di tutti. Il paesaggio che variava bruscamente gli era sempre piaciuto la strada asfaltata diventava sterrata ed era chiusa da una sbarra arrugginita, lui comunque la ignorò e si diresse in linea retta verso la cima dell’altura. Quando vi giunse era sudato ed i capelli gli si appiccicavano sul viso. Sulla schiena, sotto lo zaino, sentiva allargarsi una macchia umida, se lo tolse rabbrividendo per il freddo, almeno la pioggia era cessata. Si fermò a lungo ad osservare la città, i ricordi della giornata si accavallavano nella sua testa. La rabbia di suo padre per il matrimonio fallito, la freddezza della madre, il sorriso di Samantha… Soprattutto il sorriso di Samantha. Per un attimo tirò fuori lo smartphone pensando di scriverle, ma tutto ciò che fece fu guardare la sua foto sul profilo dell’app. rimise il cellulare nello zaino e si apprestò a scendere.
La fretta gli fece accelerare il passo ma il versante della collina che dava verso casa sua era più scosceso dell’altro, appoggiò un piede su un ciottolo e cadde rovinosamente a terra. Alzò la testa dolorante imprecando ma fece subito un balzo indietro. Su un ciuffo di erba secca, a pochi passi dal suo naso, stava una creatura stranissima. Era lunga una decina di centimetri e grossa come una salsiccia. sembrava un’enorme lumaca, di quelle senza guscio, ma era priva di antenne, pareva morta. Michael era incuriosito, raccolse un ramo spezzato e la tocco. La creatura si capovolse su sé stessa apparentemente senza vita. Aveva la pelle viscida a striature bluastre ed il lato inferiore era sfrangiato come quello dei gasteropodi. Il ragazzo estrasse lo smartphone e fotografo lo strano animale, inviò poi la foto al professor Jhonson con una breve spiegazione sul ritrovamento. Come immaginava la risposta del docente non si fece attendere.
«Ciao Michael,
non ho idea di che specie sia
ma potrebbe essere un qualche mollusco
che un buontempone
ha “scaricato” da un acquario.
Dici che ce la fai a raccoglierlo
ed a portarlo a scuola domani?»

Il ragazzo sorrise, quel professore era un autentico nerd, ma lui adorava la biologia ed, in cuor suo, sperava di studiare veterinaria. Comunque era ovvio: «la creatura» altro non era che un qualche mollusco da acquario, probabilmente illegale, ed il proprietario, una volta morta, se ne era voluto disfare. Michael estrasse il contenitore del pranzo a chiusura ermetica dallo zaino e, con l’aiuto del bastone, vi pose il corpo senza vita.
«Dovrò lavarlo bene prima di rimetterci i panini.» pensò con un ghigno e si incamminò verso casa.
La situazione nell’appartamento era come previsto: la madre era ancora nervosissima. Se la prese con Matthew, la sua ultima fiamma, che ora, in ufficio, non la degnava nemmeno più di uno sguardo
«Già, adesso muore dietro a quella Giselle!» urlò «Certo che con quelle due tettone era difficile non cascarci! A lui sono sempre piaciute le ciccione! Quel porco!»
Michael adocchio il seno non procacissimo della madre, ma lui era sicuro che, se Carol non lo avesse stremato con le sue continue scenate di gelosia, Matthew sarebbe ancora lì. Tutto sommato non gli dispiaceva, era simpatico. Comunque era meglio tener per sé questi ragionamenti.
La madre continuava con il monologo, ora se la prendeva col frigo semivuoto:
«Ed anche questa sera mi tocca mangiare quello schifo di riso in busta! Per colpa di quello stupido non ho nemmeno fatto la spesa!»
Il ragazzo colse il suggerimento e mise a bollire una pentola d’acqua.
Carol intanto si stava cambiando direttamente in cucina, la cosa lo infastidiva sempre un po’.
«Mamma» le disse «magari una doccia, mentre preparo la cena, ti aiuterebbe a calmarti.»
La donna lo fissò come per rispondergli ma poi, senza i pantaloni e con ancora la giacca addosso si diresse verso il bagno. Sospirando Michael la seguì raccogliendo il resto del vestiario che lei lasciava nel corridoio man mano che si avvicinava alla doccia.
Dopo una cena precotta, in cui il povero Matthew fu nuovamente maltrattato, il ragazzo salutò la madre e salì in camera sua.
Svuotò lo zaino appoggiando la scatola col mollusco sul davanzale, lo fissò per un attimo nella semitrasparenza del contenitore e poi adocchiò il libro di storia.
«Domani!» si disse categorico, agguantò un fumetto, si spogliò ed entrò nel letto disfatto.
Era la ristampa di «Xenon» un vecchio manga che lui adorava. Il protagonista era insicuro come lui, però era bello ed innamorato della studentessa di turno, ovviamente una sua collega lo amava, a sua volta, a sua insaputa. Inoltre c’era il non trascurabile fatto che, essendo l’eroe di un fumetto giapponese, si poteva trasformare in un cyborg indistruttibile. Michael si ritrovò ad immaginarsi mentre si toglieva l’elmetto e rivelava a Samantha la sua identità segreta. Su questo pensiero, e molto prima del solito, si addormentò.
«Michael!»
«Michael!»
Il ragazzo si svegliò.
«Michael!»
«Michael!»
Prese lo smartphone dal comodino, erano le cinque del mattino, chi lo stava chiamando?
«Michael!»
«Michael!»
«Michael!»
Era una vocina stridula e bassa che ripeteva monotona il suo nome. Si alzò intontito.
«Michael!»
«Michael!»
Ricontrollò il telefono ma non veniva da lì, sembrava quasi giungesse da fuori.
«Michael!»
«Michael!»
«Michael!»
Si avvicinò al balcone, non era possibile, stava sognando sicuramente, il suono… veniva dalla scatola del mollusco.
«Michael!»
«Michael!»
Il contenitore emetteva una lieve luminescenza, lo afferrò.
«Michael!»
Aprì il coperchio ed il suono cessò. La creatura era immobile eppure sembrava emettere una certa fosforescenza. Poi aprì gli occhi.
Il ragazzo fece quasi cadere la scatola, due occhietti bianchi e lattiginosi lo fissavano da quello che doveva essere il capo del mollusco. La creatura si mosse. Rapida.
«Michael!»
Tutto divenne buio.

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Michael riaprì gli occhi ma aveva una visione, sfocata, distorta, quasi monocromatica. Realizzò che stava boccheggiando su un marciapiede, riconosceva il selciato ma era troppo vicino. Era come se stesse osservando il mondo attraverso uno specchio distorcente, riconobbe l’insegna dell’edicola sotto casa.
«Sono caduto dalla finestra?»
«Sto morendo?»
«Ma la finestra era chiusa.»
«C’era il mollusco…»
Pensieri confusi gli si accavallavano nella mente. Però si sentiva calmo, come apatico, forse era proprio la morte. Cercò di alzarsi ma senti qualcosa di strano. Non avvertiva gli arti. Ma non provava paura. Cercò di rotolare su sé stesso, ci riuscì ed allora lo vide, si vide, vide il suo ventre, viscido e corto, piccolo come una lumaca. Era diventato il mollusco.
Era nel corpo della creatura e stava guardando il mondo con quei piccoli occhi lattiginosi. Doveva essere un sogno perché non era minimamente terrorizzato, ma, man mano che i sensi tornavano, si accorse che era troppo reale. Poteva muoversi strisciando, sentiva al tatto il marciapiede sotto il ventre. Però la paura non arrivava, non era normale.
«In qualche modo sono finito in questo corpo» pensò «ma non è possibile, questa “cosa” non può contenere un cervello. Comunque, sembra che io non possegga più nessuno stimolo emotivo, sto accettando tutto e sto pensando lucidamente.»
In quel momento provò una sensazione stranissima, in un qualche modo inspiegabile riuscì a collegarsi ai «ricordi» della creatura. Non capiva come, ma, sebbene avesse la certezza che l’essenza della “cosa” non fosse più lì, sembrava che i vecchi pensieri dell’essere fluissero in lui. Apprese prima come muovere quello strano corpo e poi ne concepì l’interezza. Avvertì l’organo, alla fine della coda, che serviva per «scambiare i cervelli», era la definizione più simile alla realtà che poteva coniare, il meccanismo era biologico e basato sulla memoria ma non esistevano parole umane per descriverlo.
Poi ebbe accesso ai ricordi più profondi dell’essere: capì da dove veniva, cosa aveva visto e cosa aveva fatto. Pur non potendo provare paura la sua mente si bloccò per una frazione di secondo davanti all’orrore innominabile di quelle immagini.
Non vide l’ombra sopra di sé.
«Lumaca!»
La madre corse verso la bambina:
«Jessica, ti ho detto mille volte che le creature non si devono uccidere! è sbagliato!»
«Ma mamma! Lumaca!»
«O mio dio! Che schifo! Guarda come hai ridotto la scarpina!»
La donna prese un fazzoletto e pulì con disgusto le tracce di viscere.
«Guai a te se lo fai di nuovo! Ed ora corriamo altrimenti arriviamo tardi all’asilo!»
Sul marciapiede un corpo invertebrato si stava contorcendo negli ultimi spasimi dell’agonia.
Michael morì così, senza provare né paura né dolore, ancora incredulo per la sorte che gli era toccata.

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