Episodio 2: Zack

Arturo era il classico “scemo del villaggio” o “genio locale” come, più educatamente, lo definivano molti. Ma non immaginatevi un Forrest Gump.

Lavorando in una segheria, in gioventù, si era mozzato il braccio sinistro proprio sotto il gomito. Questo gli aveva fatto ottenere una buona pensione d’invalidità (erano altri tempi) il che, in fondo, era quanto di meglio potesse desiderare. Sgraziato, magro, con un principio di gobba e pochi capelli biondicci che gli incorniciavano la pelata era effettivamente inadatto alla vita lavorativa.

Abitava da solo in un’enorme casa, eredità della famiglia, e si dedicava allo studio di testi esoterici, di cui aveva un’invidiabile collezione, ed alla creazione di bizzarre sculture e composizioni con rami e radici che realizzava utilizzando l’unico braccio ed i piedi.
Quest’ultimo hobby lo portava spesso nei boschi alla ricerca di materiale. Fu rientrando da una di queste escursioni che ritrovò le biciclette dei ragazzi. Nascoste dietro un gruppo di alberi alle pendici di Monte Vecchio, ben legate con i lucchetti.
La cosa non lo colpì più di tanto, anche se l’ora era tarda, ma, nello scendere verso il paese col suo carico di ramaglie, si imbatté nei padri di Marco e Giuliano che, preoccupati, cercavano i figli.

La scoperta delle biciclette circoscrisse la zona e, visti gli esiti negativi delle ricerche dei familiari, ben presto intervennero pompieri e polizia. La piccola montagnola fu setacciata in lungo e in largo per tutta la notte e pure il giorno successivo.
A poche centinaia di metri dalle biciclette vennero ritrovati i loro zaini, sembrava avessero consumato con calma la merenda, erano chiusi ed ordinati. Ma di loro, o dei loro corpi (si cominciava a pensare al peggio), nessuna traccia. Dopo un po’ l’ipotesi più plausibile sembrò essere quella del rapimento. Si iniziava ad ipotizzare che i ragazzi fossero stati fatti salire su una macchina o su un furgone e portati altrove. La teoria era, ovviamente, barcollante ma sembrava rimanere l’unica accettabile

Queste cose io le seppi molto tempo dopo. Nessuno mi forniva notizie in tempo reale allora. Sapevo soltanto che il mio migliore amico era sparito ma ero, naturalmente, speranzoso sul suo ritrovamento. Fu solo al terzo giorno dalla scomparsa, il primo giorno di scuola, che iniziai a pensare che Giuliano, forse, era sparito per sempre. La notizia era sulla bocca di tutti i compagni e molti sembravano di questo parere. Alcune ragazze vennero pure a consolarmi ed, ovviamente, non seppi far altro che arrossire.
Passarono altri due giorni. La cosa peggiore erano i pomeriggi. Ormai il salotto di mia nonna era un ritrovo per le vecchie del paese e si continuava a parlare di “zingheni” (zingari) che rapivano i bambini. Allora la cosa mi sembrava assurda, ed oggi pure. Ma il mito di Remì ai tempi andava di moda.
Ovviamente di frequentare i soliti terreni di gioco non se ne parlava proprio. Un po’ perché la nonna mi avrebbe fucilato sul posto ed un po’ (molto) perché in quel momento mi davano solo un senso di nostalgia. Quindi la mia “ora d’aria” si limitava ad un giretto nella via. Rallegrata solo saltuariamente dalla presenza della moto nera di cui non riuscivo mai ad identificare il proprietario. Dovettero passare parecchie settimane prima che mi potessi toglier la curiosità.

I ragazzi non tornarono ma la tensione si allentò, l’ipotesi del rapimento pareva la più accreditata a questo punto. Il Monte Vecchio era stato rivoltato palmo a palmo. Ovviamente le autorità erano molto propense ad una fuga volontaria piuttosto che ad un rapimento ma questo non era contemplato dai buoni valligiani. Dal canto mio cominciavo a crederci (anche se non incolpavo proprio gli zingari). Pure mio padre aveva cercato di spiegarmi la cosa facendomi però, involontariamente, capire che nemmeno lui ci si raccapezzava del tutto. Fatto sta che perlomeno il regime di arresti domiciliari si attenuò: con sommo dispiacere della nonna, per paterna intercessione io riebbi la libertà di movimento. Di giocar da solo nei soliti posti ancora non mi andava ma, per festeggiare la riacquistata libertà, decisi di fare una breve passeggiata fino alla “Palestra di Roccia”. Era il ritrovo abituale dei maniaci del freeclimbing. Non ci andavamo volentieri perché era a ridosso della strada statale e, soprattutto, perché i ragazzi grandi, impegnati nelle scalate, gradivano poco dei piccoli e vocianti spettatori. Pensai però che, essendo solo, non avrei avuto rimproveri se mi fossi messo ad osservarli in silenzio.
La “palestra” era una grande parete liscia a ridosso della carreggiata. Gli appigli eran veramente minimali e, per questo, aveva un grande appeal sui climber più capaci. Quel giorno solo due persone si avventuravano sulla sua superficie. Un ragazzo era alle prese con la scalata ed il suo compagno gli stava facendo sicurezza, reggendo la corda da terra, non li notai subito però. A margine della statale, sospesa fieramente su un lungo cavalletto, c’era la moto nera. Un casco nero con la visiera scura pendeva dal manubrio.
Ci misi qualche secondo a realizzare che uno dei due ragazzi doveva essere il proprietario, nonché il nuovo vicino della nonna. Fissai quello a terra ma lo conoscevo, non sapevo il suo nome ma era un frequentatore abituale del posto. Mi sforzai quindi di distinguere lo scalatore…
… rimasi allibito.

Era un ragazzo di età indefinita, non ne distinguevo bene i lineamenti, magro e con i capelli nerissimi. Però la tenuta che indossava era esagerata, anche per gli anni 80: aveva un paio di pantacollant (allora li chiamavamo così) giallo vivo con motivi a stelle rosse. Le scarpette da freeclimbing erano fucsia acceso, completavano l’assetto un pesante giubbotto di pelle nera con le spalline imbottite e degli occhiali da sole tipo Ray Ban. I capelli erano tirati indietro sulla testa da uno strato di gel che luccicava al sole e la pelle era chiarissima. Nonostante l’abbigliamento si muoveva agilissimo sulla roccia, gli appigli su cui posava i piedi erano praticamente invisibili eppure sembrava che per lui fossero comodi pioli e saliva apparentemente con pochissimo sforzo, le braccia quasi rilassate. Dopo un po’ si mise ad armeggiare con la corda e quindi si allontanò dalla “via” procedendo orizzontalmente. La manovra non doveva essere molto abituale perché il compagno raddoppiò l’attenzione. Tuttavia i due non si dissero nulla e, quindi, immaginai che la cosa fosse stata stabilita in precedenza.

Lo scalatore raggiunse una crepa sulla parete rocciosa. Non era stata attrezzata come percorso perché risultava un appiglio troppo facile e poco interessante. Lui la esaminò molto attentamente avvicinandovi la faccia ma senza togliersi gli occhiali da sole. Ad un certo punto sembrò aver trovato qualcosa. Reggendosi con i piedi ed una mano estrasse da una tasca del giubbotto una sottile macchina fotografica Kodak e scattò un paio di foto con la mano libera. Dopodiché se la infilò in bocca ed estrasse, dalla stessa tasca, un “cubetto flash” (un piccolo flash monouso che si usava allora, aveva quattro facce che emettevano altrettanti lampi di luce, un meccanismo sulla macchina lo faceva ruotare man mano che si consumavano). Incastrò il cubetto sulla macchina tenuta coi denti e poi scattò altre due foto. Rimise la macchina in tasca ed in pochi minuti raggiunse il suolo, aiutandosi stavolta con la corda.
«Grazie Giò!» disse al ragazzo che lo aveva aiutato.
«Trovato qualcosa?» chiese lui.
«Direi di no, la crepa pare stabile. Il che è ottimo!»

Ora lo vedevo bene in faccia, aveva un naso aquilino ed il volto lungo con un mento spigoloso, la pelle era molto pallida ma non dava l’idea di malsano. Sembrava una carnagione nordica, ma abbinata ai capelli neri dava un aspetto vampiresco al ragazzo. Però mentre sorrideva, passando una busta a “Giò” (Giorgio?) non notai zanne.
«Ma scherzi?» disse quest’ultimo «Guarda che lo ho fatto volentieri. Non serve.»

L’altro lo zittì con un gesto, sempre sorridendo.
«Non ti preoccupare, lo inserirò nella nota spese. Quelli danno soldi a cani e porci, sarebbe stupido non darli a chi lavora davvero.»
Senza dare il tempo all’altro di replicare balzò sulla moto, si infilò con cura il casco sulla monumentale capigliatura, era un modello col frontalino sollevabile e quindi poté eseguire l’operazione senza togliersi gli occhiali, quando abbassò la parte frontale alzò la visiera. Poi avviò il motore e partì sgommando. Dopo un paio di metri eseguì un’impennata e sparì dietro la curva su una ruota sola.

Non saprei dire se “Giorgio” sia stato scioccato dalla manovra o dal contenuto della busta.
«Bella moto.» mi disse inebetito.
«Già.» risposi io.

Quella fu la prima volta che vidi Zack.