Premessa apparentemente sconnessa.
La nostalgia è forse il sentimento che più ci contraddistingue in questo periodo storico. E non sto parlando solo delle tante IP che fanno di questa il centro della narrazione, vedi Stranger Things, ma della capacità tecnologiche, della possibilità a portata di click, di accedere a intere library di serie, videogiochi e film del passato.
Ma perché lo facciamo? Principalmente per stare meglio, secondo recenti studi la nostalgia, al contrario di quanto molti pensano, è un sentimento positivo, serve a migliorare l’umore, aumentando la sensazione di essere amati e stimati. Eppure se vediamo la radice della parola non ci sono dubbi: “nostos”, ritorno, e “algos” dolore. Il dolore del ritorno. L’idea è che ci si può immergere nel dolore, il giusto tempo, per poi uscirne rafforzati, ma senza lasciarsi trascinare nelle sue viscere.
Fine premessa.
In questo quarto capitolo della saga di Indiana Jones (scusate, quell’altro “quarto” non riesco a calcolarlo) Harrison Ford torna a vestire i panni dell’archeologo più amato degli anni 80 all’incredibile età di 80 anni. Fisicamente più in forma di molti di noi Harrison ha accettato di tornare a indossare cappello e frusta grazie anche a un pesante trattamento digitale che fa da prologo alla pellicola che ci mostra l’attore poco più che quarantenne (il resto del film è ambientato nel 1969, dove indie ha 70 anni). Se ve lo state chiedendo, no, la CGI non è ancora a un livello tale da permetterci di seguire le sequenze senza notare il vuoto negli occhi del nostro protagonista ringiovanito. Va meglio sui campi medi e larghi, ma il risultato è appena sufficiente (con qualche calo qua e la). L’intro però regge, ambientata negli anni “giusti” di Indiana, quelli che tutti ricordiamo con tanta nostalgia. Come già visto nel trailer, il film ci riporta alla seconda guerra mondiale dove l’archeologo sta come al solito cercando di salvare un mucchio di manufatti dall’incredibile valore storico. Si tratta di un inception temporale (eventi mai citati nelle altre pellicole) che serve a presentarci la sua nuova compagna di avventure (Phoebe Waller-Bridge, nella finzione sua figliastra, Indiana è il padrino) e il cattivo di turno (Mads Mikkelsen, perfetto): un nazista appassionato di matematica (come gli è venuto di scegliere i russi in quella pellicola che non esiste!) alla ricerca di un fantomatico artefatto con il quale Archimede avrebbe sperimentato il viaggio nel tempo.
Il film intrattiene per quasi tutte le 2 ore 22 minuti, con pause forse non sempre necessarie e qualche scena non del tutto indispensabile. Le action scene sono all’altezza ma quello che piano piano cresce nel cuore dello spettatore è un senso di “vorrei ma non posso”. Ci sono i mezzi, c’è il cast (con graditi ritorni), ma manca l’anima. Manca la vitalità che ricordiamo, quell’energia quasi magica che i primi tre capitoli riescono a riprodurre ogni volta che ci troviamo a riguardare i film. Mi spiego meglio, quando rivedo un film di Indiana Jones, lo faccio per quella spinta nostalgica di cui sopra, quella sana, per cercare emozioni e ricordi del passato che mi diano soddisfazione nel presente. INDIANA JONES E IL QUADRANTE DEL DESTINO prova a premere gli stessi tasti emotivi della saga facendo però cilecca. Il ricordo è sbiadito, la messa in scena non sufficiente a farmi credere che si, quello sullo schermo è l’Indiana Jones che ho amato alla follia, il motivo per cui anche solo per un attimo a 18 anni ho pensato: ora mi iscrivo ad archeologia (non l’ho mai fatto NDR). Si tratta però solo di un simulacro, e quella CGI che lo riporta in vita sembra raccontare perfettamente l’intero film: una bellissima riproduzione con degli occhi vuoti con i quali non riusciamo a interagire, ad emozionarci.
INDIANA JONES E IL QUADRANTE DEL DESTINO chiude definitivamente il nostro rapporto con il dottor Jones (ma chi lo sa, con Disney in controllo potrebbe tornare in altre forme), forse riuscendo a lasciare un sorriso negli occhi di qualcuno, un sussulto sulle note di John Williams, una lacrima nel guardare il nostro eroe emozionarsi di fronte all’ennesima scoperta archeologica. Ma il dubbio resta: ha senso prolungare il passato ben oltre i suoi confini, immergersi in una nostalgia eterna, artificiale, incapace di riprodurre quel ricordo che tanto ha segnato la nostra vita filmica?