L’idea di un antieroe, un perdente in grado di mettere in difficoltà il grande campione è alla base della saga di Rocky. La domanda è: quante volte si può ripetere la stessa dinamica? Tecnicamente sempre, non c’è un limite vero, Hollywood ci ha abituato a ripetizioni di archetipi pienamente riuscite anche se non originali ai più.

In breve la storia vede Creed ormai ritirato e diventato proprietario di una palestra, ritrovare un vecchio amico, anche lui pugile a cui deve molto a livello tecnico e personale, che dopo anni in carcere vuole riprendersi quello che crede sia il suo destino: diventare campione dei pesi massimi.

Tecnicamente la trama è sufficiente a costruire la curva dell’antieroe che vuole affermare se stesso, ma i problemi di fluidità e coerenza non fanno altro che indebolire l’intero film. Gli elementi narrativi utili a far progredire la storia sono inseriti chirurgicamente e in quasi nessun caso riescono a connettersi naturalmente con lo scorrere degli eventi. Il primo turning point, utile a creare i presupposti per portare Dame (Johnathan Majors) a sfidare il detentore del titolo, è del tutto pretestuoso, al limite del Deus Ex Machina. I personaggi hanno delle difficoltà, delle debolezze, ma sono descritte in modo raffazzonato e in molti casi non sviluppate durante la pellicola. Emblematico il problema d’udito della moglie di Creed che per questo ha smesso di cantare, che non ha alcuna funzione narrativa (se non quella proprio striminzita di avvicinare il ritiro delle scene a quello di Creed, anche se lui non ha smesso per problemi fisici) o il conflitto con il suo allenatore che continua a ripetergli che è troppo vecchio per tornare sul ring nonostante il suo avversario, Dame, abbia parecchi anni più di lui. Troppo rapida poi la curva narrativa del suo amico di vecchia data, pronto a diventare campione dei pesi massimi in un batter d’occhio, poco credibile non tanto dal punto di vista fisico e recitativo (peraltro mostruosi entrambi gli attori per la trasformazione fisica, Johnathan Majors sembra Tyson) quanto da quello emotivo.

Non c’è connessione con lo spettatore che, abbandonato a se stesso, cerca di interpretare, senza successo, quale sia il senso degli eventi mostrati su schermo: è un film sulla rivalsa del suo amico di vecchia data? E’ un film sulle difficoltà di Creed a esprimere i suoi sentimenti? E’ un film sul fatto che i pugili non vanno da uno psicoterapeuta perché preferiscono menare le mani? (in quest’ultimo caso allora è tutto molto più chiaro!). Last but not least, la regia affidata allo stesso Micheal B. Jordan è forse il “chiodo sulla bara” di una saga che ha deciso di abbandonare il suo capostipite, Sylvester Stallone, forse allontanandosi troppo da quella genuinità che Rocky Balboa sapeva intepretare alla perfezione, quella disperazione e quel bisogno di affermarsi al di la di ogni difficoltà, che in questo Creed non c’è in nessuno dei personaggi.