Ci sono serie che negli ultimi anni hanno acceso molto il dibattito su quale formula sia migliore, se la trama orizzontale (cioè un unico filo conduttore che unisce tutti gli episodi della stagione che, solitamente, va a terminare con un finale aperto) o quella ad episodi auto conclusivi.
Ad esempio una delle principali pietre della discordia è Star Trek: Discovery che dopo tre stagioni ed innumerevoli cambi di Showrunners non solo non è ancora riuscita a mettere tutti d’accordo ma anzi corre costantemente il rischio di spaccare il fandom tra chi giura amore incondizionato e chi si dice insoddisfatto della piega presa.
Tuttavia, orizzontali o verticali che siano le trame riusciamo (pur se con qualche fatica) a trovare delle vere e proprie perle rare come ad esempio la recente miniserie Lupin oppure la serie, di cui attendiamo la seconda stagione, che riscrive in chiave moderna la mitologia norrena Ragnarok.

Quando poi si parla di franchise molto popolari nella cultura Pop si corre il rischio facilmente di trovarsi in situazioni simili a quelle di Star Trek: Discovery e oltre alle accuse di poca sostanza si aggiunge anche il cosiddetto “fanservice”, che sarebbe un modo elegante per dire “ma che me stai a pijà per culo?” dando qualche contentino buttato lì qua e là all’interno degli episodi.
Del tipo: tu vorresti vedere l’Ammiraglio Picard che affronta i Borg e i Romulani dalla plancia dell’Enterprise dopo aver riunito l’equipaggio un po’ come D’Artagnan in Vent’anni Dopo e io non te li faccio vedere nemmeno per il cavolo però ti piazzo il cappello di Dixon Hill appeso su un attaccapanni così, se te ne accorgi, ti viene una lacrimuccia.

Ecco, in questo contesto c’è una serie in particolare che del “fanservice”, ma quello genuino, non paraculo, ne sta facendo non solo una ragione di vita ma ne è anche la forza trainante ed è Cobra Kai, il seguito diretto dei vari Karate Kid, o per meglio dire del Mr Myagiverse.
Siamo arrivati alla terza stagione ma in italiano è solo da pochi mesi che possiamo apprezzarla, grazie al trasloco su Netflix (le prime due stagioni sono state distribuite da YouTube).
Confesso che sono stato subito catturato da questa serie già dall’uscita della prima stagione perché mi intrigava molto il concept alla base del progetto: vedere la storia dal punto di vista di Johnny Lawrence, il “nemico”, o meglio lo stronzo antipatico che bullizzava Daniel Larusso nel primissimo film.

Gli episodi sono quindi un continuo rimando agli anni ’80 (musiche comprese) con una trama che fondamentalmente ricalca quella del primo film ma con Johnny a svolgere, a modo suo, un ruolo da mentore nei confronti di Miguel, ragazzo trasferitosi da poco (ma dai) e subito preso di mira dai bulli della scuola.
In realtà detta così sembra veramente facile e, soprattutto, sembra solo una scopiazzatura di situazioni già viste ma il bello di Cobra Kai è che ad ogni episodio da allo spettatore esattamente quello che si aspetta ribaltando continuamente il punto di vista.
Un momento fa avevi chiaro in mente chi erano i buoni e chi i cattivi un momento dopo cambia tutto e tra un colpo di scena e l’altro arriviamo alla terza stagione che continua l’escalation positiva delle prime due.

Avevamo lasciato Miguel in coma dopo una brutta caduta causata da Robbie Keene (il figlio di Johnny) e il Cobra Kai tornato saldamente nelle mani di John Kreese, il vero cattivo di tutto il franchise.
Sappiamo che un cattivo per essere veramente tale deve avere una sua forza morale, deviata, andata alla deriva che sia, ma la “motivazione” e il “vissuto” del cattivo sono aspetti fondamentali che ne delineano la credibilità (pensiamo a un Darth Vader, un Hannibal Lecter o più recentemente, Thanos).
Ed ecco che la terza stagione dedica molto al background di John Kreese per far comprendere le sue ragioni e, letteralmente, la sua storia, il percorso che lo ha portato a diventare quello che è e che malgrado manipoli i giovani spingendoli a non avere pietà dall’altro lato aiuta Tory a liberarsi del suo affittuario aguzzino (o lo fa solo per suo tornaconto?).

Nel mezzo non mancano momenti non meno entusiasmanti come il ritorno di Daniel ad Okinawa (nella realtà è la prima volta che Ralph Macchio mette piede ad Okinawa, in Karate Kid II le scene ambientate lì erano in realtà girate alle Hawaii) ed il momento esaltante della “rivincita” di Chozen su Daniel diventa in realtà un trampolino di lancio per il momento, ancor più esaltante, in cui Daniel si trova finalmente a fare i conti con Kreese come pure si trova un certo senso di soddisfazione quando finalmente Johnny e Daniel riescono a spiegarsi e a mettere da parte le divergenze complice la loro vecchia fiamma Ali (ma soprattutto complice Facebook che mette in contatto Ali e Johnny, a proposito, il profilo di Ali “esiste” veramente…).

Se ancora non avete visto Cobra Kai ritenetevi fortunati perché avreste davanti 30 episodi che vi appagheranno come pochi, se avete visto le prime due stagioni e ancora non avete visto la terza (scusandomi per alcuni spoiler) non restate lì impalati e correte a vederla.
Nel frattempo è in preparazione la quarta stagione (ne sono previste sei in totale, almeno per ora) che potrebbe arrivare molto prima di quanto si pensi (cioè entro l’anno) e personalmente non vedo l’ora di scoprire se gli sceneggiatori saranno riusciti a fare ancora una volta meglio delle precedenti.

Ah, dimenticavo, evviva il fanservice (quando è ben fatto)!