Un’eredità raccolta con rispetto, cuore e intelligenza.
Il nuovo Superman diretto da James Gunn segna l’inizio ufficiale del rinnovato universo DC, ma lo fa con un passo diverso da quanto ci si poteva aspettare. Non è solo un film di supereroi: è un omaggio, una riflessione e, inaspettatamente, un film profondamente umano. Non serve conoscere tutto il background DC né essere cresciuti con i film di Christopher Reeve per lasciarsi coinvolgere: Superman 2025 è accessibile, emotivo, spettacolare e inaspettatamente personale.
Chi ama i cinecomic troverà azione e ritmo, chi cerca qualcosa di più — troverà cuore. E chi, magari, aveva smesso di crederci, potrebbe tornare a farlo.
Ho avuto il privilegio di vedere Superman all’anteprima stampa, fortunatamente in lingua originale. E dico fortunatamente perché James Gunn ha lavorato anche sulla voce del suo Clark Kent: David Corenswet sfoggia un timbro che oscilla tra il rassicurante e il disarmante, tra il compito da eroe e la tenerezza da ragazzo di campagna. È un dettaglio, forse, ma in un film come questo, niente è davvero un dettaglio.
Sono uscito dal cinema fischiettando il tema di John Williams. Sì, proprio la celebre Superman March, quella che ci ha accompagnato nei film con (e non “di”) Christopher Reeve. E se ho canticchiato quel tema fino a sera, qualcosa vorrà pur dire: Gunn ha fatto centro.
Perché andiamo ancora al cinema a vedere film di supereroi? Perché continuiamo a leggere storie di persone in tutine strette che fanno cose impossibili? Perché, nonostante tutto, siamo ancora affascinati. Affascinati da un’idea di bene, di giustizia, di umanità fuori misura. E quando il trailer mostrava un costume posticcio e un protagonista col sorriso da figurina Panini, ammetto di aver pensato: “questa volta non ci siamo”.
E invece sì. Tutto funziona.
Gunn ha capito che la magia di Christopher Reeve non era negli effetti speciali o nei muscoli. Era nel suo modo di muoversi. Nella postura. In quella gentilezza goffa, quasi d’altri tempi. Quel Superman era credibile perché era profondamente umano. E Gunn riesce a restituire proprio questo: un Clark Kent tenero, impacciato, generoso, che si prende sul serio senza mai risultare caricaturale. Corenswet non imita Reeve, lo rievoca, e lo fa con rispetto, con misura, con efficacia.
Persino il costume – che in foto sembrava una parodia di se stesso – funziona sullo schermo. Così come quel viso bonario, che in movimento acquista una potenza e una dolcezza fuori dal tempo. Il film originariamente si intitolava Superman: Legacy, e in effetti il concetto di eredità è centrale: l’eredità kryptoniana, quella umana, quella cinematografica.
Gunn sceglie un approccio narrativo diverso rispetto a tutti i Superman precedenti. Qui non c’è la canonica “origin story”, ma un Clark già inserito nel mondo, già Superman e già reporter. Eppure, le origini ci sono — e come spesso accade nei buoni film, sono messe dove servono, non dove ce le aspettiamo. E se qualcuno ha detto che il film “non parla delle origini”, probabilmente stava dormendo. Perché il cuore emotivo resta sempre quello: il legame tra genitori e figli. La scena con Jonathan Kent è un pugno nello stomaco, tanto intensa quanto quella con lo Zio Ben per Spider-Man o il padre sotto il tornado in Man of Steel. Gunn centra perfettamente il punto: non è Krypton a rendere Superman chi è, ma Smallville.
Sul piano stilistico, Gunn compie un piccolo miracolo: riesce a coniugare l’epica del mito con la leggerezza del moderno, senza mai cadere nel ridicolo né nella malinconia forzata. Non è un film nostalgico. È un film con memoria. Ha un’identità visiva pulita, quasi classica, ma non rinuncia all’energia e al ritmo che un cinecomic odierno richiede. Il suo Superman è più luminoso, più gentile, e per certi versi più credibile, proprio perché imperfetto e spiazzato da un mondo che a volte considera la gentilezza una debolezza.
A funzionare è anche l’alchimia del cast, sorprendentemente affiatato. Rachel Brosnahan è una Lois Lane affilata, brillante, ironica, con cui Corenswet costruisce un rapporto fatto di intese sottili e reciproca curiosità. Nicholas Hoult, nei panni di Lex Luthor, propone un villain più cerebrale che istrionico: lucido, freddo, ossessionato dal potere e dalla vulnerabilità dell’uomo che vuole distruggere. E intorno a loro si muovono tanti comprimari — Mister Terrific, Hawkgirl, Guy Gardner — che non rubano la scena, ma arricchiscono l’universo, lasciando intuire la costruzione di un DCU finalmente coerente.
Infine, un dettaglio commovente: tra i camei spicca Will Reeve, figlio del compianto Christopher, nei panni di un giornalista. Una scelta simbolica, che chiude un cerchio e al tempo stesso riapre la speranza. Non c’è mai retorica gratuita, solo una profonda consapevolezza di cosa significhi portare sulle spalle — letteralmente — la “S” più iconica del cinema.
E poi: le due ore sono volate. Il film si muove tra momenti di pura emozione e altri al limite del “What the Fuck”, nel senso più gunniano del termine. Un carrozzone entusiasta, a tratti sopra le righe, ma sempre guidato dal cuore. Un film che non chiede di credergli, ma ti ricorda perché ci hai creduto da bambino.
Per chi c’era all’epoca di Christopher Reeve, questo Superman è un colpo al cuore.
E per chi non c’era? Potrebbe diventare il primo Superman da ricordare.