Once upon a time… in Hollywood è già tutto nel fantastico titolo, un titolo che è una decisa dichiarazione d’intenti, c’è dentro il richiamo al fiabesco, c’è dentro, chiarissimo, il richiamo a Sergio Leone e ai suoi western di rottura rispetto ai canoni del cinema classico americano, c’è dentro il legame ad un passato che conosciamo bene e che quindi si può liberare dalla gabbia della verità e reimmaginare e mescolare, riscrivere perchè è quello che si fa Hollywood, la terra dei sogni dove tutto è possibile, dove si può essere eroi, profeti, assassini, dove si può vivere, morire e risorgere.
Un luogo/non-luogo l’Hollywood di questo Once upon a time, una suggestione, un sogno, una visione, un dolce ricordo. Tarantino dipinge la terra dei sogni del cinema come non è mai stata, ma com’è stata raccontata, mitizzata e da lui adorata, con la melanconia che ricopre le cose perdute smussandone i difetti. Una Hollywood che non c’è più, che forse non è mai esistita, che è morta, che è stata uccisa, che viene uccisa di nuovo in questo film perché dalla morte possa nascere nuova vita.
Siamo a Cielo Drive, la strada della strage, Cliff Booth (Brad Pitt) ha appena riaccompagnato a casa il suo capo, Rick Dalton (Leonardo Dicaprio) di cui è stuntman, autista e galoppino tuttofare. Salutato Rick riparte con la sua vecchia macchina e attraversa Los Angeles per arrivare alla sua roulotte dietro un drive in e qui la macchina da presa si separa da Cliff e si alza in un dolly e supera lo schermo del cinema all’aperto, passa sopra le macchine degli spettatori per poi rituffarsi dentro la luce abbagliante del proiettore. Tarantino ci immerge letteralmente dentro il cinema, dentro la finzione, ed è tutto così Once upon a time… in Hollywood un continuo immergersi e riemergere dal cinema, in tutte le sue sfaccettature. Vediamo veramente ogni aspetto del cinema, dai set, dalle roulotte di trucco parruco, parliamo con i tecnici delle luci, con gli addetti al guardaroba, con gli stuntman, parliamo con la ragazza della biglietteria e con il padrone di una sala, ci vengono offerti popcorn e bibita, arriviamo a vedere un film al cinema dentro il cinema. Andando avanti e indietro nel tempo, per uccidere il passato, uccidere il sogno nel momento della sua più grande crisi. Quando Hollywood sembrava fallita e in quel 1969 è rinata e riemersa, nuova Hollywood quella di Easy Rider e de Il Mucchio Selvaggio, quella di Hopper, Scorsese, De Palma, Coppola e Spielberg.
E allora uccidiamolo e superiamolo il vecchio, uccidiamo i miti, uccidiamo il sistema per poi farlo rinascere, di nuovo, ancora più grosso e luccicante e meglio di prima.
È una dichiarazione d’amore totale e assoluta al cinema, al mezzo cinema, in tutte le sue forme, in tutte le sue modalità, in tutti i suoi formati, è una dichiarazione d’amore al fare il cinema, al vedere il cinema, allo stare al cinema, al godere il cinema. Tarantino vuole assolutamente farci immergere nella sua passione carnale. Il cinema lo fa godere, lo fa godere nel farlo e nel fruirne. Ed è un’orgia di immagini goduriose, dal continuo rimando al feticismo di Tarantino per i piedi, piedi continuamente in scena come mai prima, all’eroticità dei corpi degli attori da quello di Margot Robbie con la sua bellissima Sharon Tate continuamente danzante e sorridente, alle infinite e bellissime gambe di Margaret Qualley la stupenda hippy “Pussycat” della Manson Family, al torso nudo, abbronzato, scultoreo di Brad Pitt.
E si gode, e Tarantino gode tantissimo, delle possibilità e del potere del cinema, del poter riscrivere e rimaneggiare la storia, abbandonando l’esuberanza intrepida e rivoluzionaria di Inglorius Basterds dove in un cinema, in un incendio di pellicole Quentin uccideva Hitler e tutto l’alto comando dei gerarchi nazisti compiendo la vendetta ebrea, ma qui, invece, con un lungo, intimo, riflessivo percorso di studio e analisi della settima arte.
Un Tarantino quasi inaspettato, che mette da parte la sfacciataggine esplosiva che lo ha sempre contraddistinto per prendersi tutto il tempo per narrare la morte e la rinascita del cinema attraverso un bombardamento continuo di citazioni e autocitazioni mai come questa volta così fondamentali e continue, tanto da formare un paratesto che diventa quasi più importante del testo o per cui il testo è solo una scusa, una giustificazione per tutta l’impalcatura che sta dietro, e poi lasciarsi andare negli ultimi 40 minuti ad un’eruzione di violenza brutale, divertentissima e liberatoria.
Non il classico Tarantino, spiazzante e per questo forse incompreso, prolisso senza mai pesare nonostante le quasi 3 ore di durata, che anzi quasi non bastano, si esce che se ne vuole ancora. Meno coeso del solito nella narrazione, più sfaccettato, più profondo e meno d’impatto nell’immediato.
Straordinaria l’interpretazione di Leonardo Dicaprio, il suo Rick Dalton attraverso la parabola della sua carriera è il simbolo sia della morte che della rinascita di Hollywood, interpretazione incredibile anche nella capacità di mettersi un passo indietro e lasciare spazio, nonostante il ruolo da protagonista sia suo, a Brad Pitt nel ruolo della vita, narratore e trascinatore del film, con un personaggio che forse, finalmente, gli varrà la prima statuetta dorata dopo essere stato ignorato e sottovalutato troppo a lungo per il pregiudizio che l’uomo più bello della storia non possa essere anche dannatamente bravo, e lo è e lo è sempre stato dannatamente bravo. E sarebbe fantastico la notte del 9 febbraio vedere Brad e Joaquin finalmente, per la prima volta, “oscarizzati”, ci lascerei tutte le mie lacrime.
Ha ottenuto reazioni contrastanti Once upon a time nella sua comparsa in concorso a Cannes, comprensibili dato lo scarto di tono rispetto a quello che ci si aspetta di solito da Tarantino ma forse frettolose e ingiuste. Per me Once upon a time… in Hollywood è un film bellissimo, meno esplosivo e elettrizzante di altri film di Tarantino, probabilmente non il suo migliore, ma sicuramente quello a cui ho lasciato il cuore, quello che continua a crescermi dentro e a piacermi ed emozionarmi sempre di più man mano che continuo a pensarci. Emozionante, intimo, a tratti commovente, divertentissimo, l’ennesimo film incredibile nella filmografia di un regista straordinario che da 27 anni continua a stupire e farci innamorare del cinema. Non vedo l’ora di rivederlo e rivederlo e rivederlo, lo vedrò tantissime volte questo Once upon a time… in Hollywood e anche voi dovrete assolutamente farlo dal 19 settembre, con un indecente ritardo rispetto al resto del mondo, al cinema naturalmente, preferibilmente in originale, preferibilmente tante volte e rimanendo in sala fino alla fine che Quentin ci regala una chicca anche nei titoli di coda come se avesse fatto veramente fatica questa volta a mettere fine a questo film, a lasciarlo andare, e allora via anche mentre i nomi scorrono sullo schermo a citazioni, autocitazioni ed omaggi. Il film varrebbe anche solo per quelli il bonus è che anche la storia, che mai come questa volta è solo un pretesto per altro, è davvero una bomba.