Definire «estasi» quello che aveva provato a Michael sembrava riduttivo, ci mise quasi un’ora per riprendere il controllo di sé. Si cambiò completamente (anche al biancheria intima) con i vestiti che aveva nello zaino. Mise i capi usati in un sacco di yuta assieme alle chiavi del cottage ed a qualche pietra e li buttò nel lago. Era stato fortunato a trovare gli stivali da pesca del padre di Samantha così qualsiasi impronta sarebbe stata attribuita a lui. Li aveva lasciati in cucina ed in bella vista.
Fu solo il giorno dopo, a scuola, che seppe i dettagli della vicenda. I fatti lo lasciarono parecchio turbato, aveva pensato che la polizia ci avrebbe messo qualche giorno ad arrivare al signor Brennan il quale, nel frattempo, avrebbe rimestato ulteriormente le cose. Invece quella coppia di sbirri si era rivelata più in gamba del previsto. Approfondendo la cosa si rese conto di essere addirittura stato parecchio fortunato: una cena di famiglia aveva impedito ai poliziotti di ottenere l’indirizzo del cottage in maniera tempestiva.
La preoccupazione, comunque, lo aiutò a fingersi abbattuto. Nessuno dei compagni pensava che Samantha sarebbe rientrata e di Emma non si parlava. Si era già reso conto che Tommy nutriva un’attrazione verso la vecchia amica del Michael originale. Il ragazzo tratteneva a stento le lacrime. La cosa gli procurò ulteriore piacere.
Ne era valsa la pena, avrebbe solo dovuto essere più prudente. La prossima volta.

Era sera inoltrata, nel bar quasi vuoto regnava il silenzio mentre le note di una canzone dei Guns and Roses a basso volume parlavano profeticamente di «Paradise City». Jackson ed O’Maley erano al bancone davanti a due birre scure. Fu l’uomo a rompere il silenzio:
«Brutta storia…» non trovava le parole.
«Smettiamola» disse lei «dirlo non ci renderà meno idioti: né tu né io pensiamo che Thomas Brennan abbia potuto fare quello scempio.»
«Già» ammise lui «di sicuro l’ha rapita e violentata, sicuramente l’avrebbe uccisa ma non in quel modo. Cazzo, un uomo non tortura una persona all’ultimo minuto così “tanto per”. E per cosa? Per cadere sotto shock per le successive quattro ore! Dicano quel che vogliono quei fottuti strizzacervelli, non regge!»
O’Maley fece roteare il liquido ambrato nel bicchiere:
«Io ho controllato» disse «il ragazzo ieri risultava assente.»

Michael scese dalla collina, aveva controllato tutto ed ora era perso nei suoi pensieri. L’omicidio lo aveva, in un certo senso, riequilibrato. Aveva sperimentato un’epifania tale da non sentire più nessuna tendenza masochistica. Solo si chiedeva quanto sarebbe durata prima di aver bisogno di riprovare le stesse emozioni. L’essere cresciuto in totale isolamento e nell’impossibilità di comunicare veramente gli lasciava parecchie domande, doveva ammetterlo.
Certo che cercare le risposte, nell’unico modo possibile, era decisamente contro la sua natura. Qualcosa glielo impediva. Qualcosa che, nel linguaggio umano, non aveva una definizione.
La conversazione di quella sera con Carol fu piuttosto pesante. L’aver scoperto che un suo vecchio compagno di college (col quale probabilmente aveva avuto una storia) era un maniaco omicida la aveva sovreccitata. Passò la serata a raccontare di come lei lo avesse sempre saputo.
Michael riuscì a riprendere il filo dei suoi pensieri soltanto quando si sdraiò sul letto. Era eccessivamente ottimistico pensare che il bisogno di uccidere non si sarebbe ripresentato, il massimo a cui poteva aspirare era il cercar di controllarlo in modo che non diventasse un «vizio» frequente. Però con quei due sbirri alle calcagna (qualcosa gli diceva che non lo avrebbero mollato) non poteva più permettersi di colpire dentro la sua cerchia di conoscenze. Stava ancora meditando quando il telefono trillò. Era un messaggio di Samantha:

«Tu sai cosa si prova,
non so che fare.»

Ci mise qualche minuto a capire il senso dello scritto: lui, ufficialmente, era stato accecato dal proprio padre. Decise di rispondergli: mantenere l’amicizia con la ragazza poteva evitargli fastidiose sorprese:

«Per me è diverso.
Mio padre mi ha sempre picchiato»

La risposta non si fece attendere:

«Mio padre mi ha sempre trattata bene.
Forse è colpa mia»

Michael era solo e, quindi, si permise di ridere apertamente. Ma certo. La colpa era di un video sexy di due ragazzine. Senza di quello il signor Brennan avrebbe continuato ad essere una persona stupendamente normale. Vabbé doveva rimanere serio:

«Qui riesco a capirti, anche io
ho cercato di difendere mio
padre contro ogni evidenza.
Ma non è colpa tua come non è stata
colpa mia. Erano fatti così e noi
non avremo potuto cambiarli.»

La conversazione virtuale si protrasse per un po’, alla fine lui crollò per la stanchezza, l’ultimo messaggio lo lesse la mattina dopo: Samantha gli comunicava che sarebbe venuta al funerale.

La scuola era chiusa per la funzione religiosa, Carol aveva deciso di sfoggiare anticipatamente l’abito per il processo, il che fu un bene visto che, fondamentalmente, non le stava male. Michael notò che Arthur Simpson (il padre di Tommy) sembrava decisamente più interessato a lei che alla cerimonia. Però era troppo corpulento e calvo perché Carol lo prendesse di mira. Tuttavia la cosa ravvivò l’umore della donna.
«Meno male che siamo ad un funerale» pensò Michael.
In effetti molti esseri umani avevano una selezione inconscia delle emozioni che non rendeva nemmeno tanto particolari le sue esigenze.
Fondamentalmente era normale che esistessero cose come i serial killer ed i pedofili. Nessuno se ne stupiva veramente. Si sorprese, però,nel provare un certo sollievo quando abbandonò il gruppo degli adulti per unirsi ai suoi compagni. Erano tutti stretti attorno ad una Samantha letteralmente distrutta. Era senza trucco ed indossava un paio di pantaloni neri ed un maglioncino dello stesso colore, i capelli raccolti in una coda. Era l’ombra di sé stessa dilaniata dal dolore. Michael notò che la cosa gli procurava un piacere sottile. Strano.
Con la coda dell’occhio notò pure i due poliziotti, Jackson, con un completo scuro senza cravatta, spiccava sulla folla data la sua mole. Si stupì di vedere O’Maley con una gonna al ginocchio e scarpe nere con il tacco ma la persona che lo incuriosì di più fu una ragazza alta, più vecchia di lui. Aveva i capelli fulvi raccolti in una treccia, indossava un completo giacca e pantalone grigio scuro. Era in lacrime e si appoggiava su O’Maley.
«Annalise» pensò Michael.

Il ragazzo rivide i due detective al processo del padre, erano seduti in ultima fila. Nonostante alcune uscite inopportune di Carol l’udienza si svolse regolare e la condanna fu decretata all’unanimità. Michael fu affidato esclusivamente alla madre (il che era sicuramente un vantaggio) mentre il padre si sarebbe fatto un po’ di galera oltre ad arricchire sensibilmente il conto in banca di Carol. L’uomo era decisamente confuso e, probabilmente, sotto l’effetto di qualche psicofarmaco. L’ombra dello sbruffone di un tempo.
L’essere lo disprezzava dal profondo, due gocce di sangue, un occhio perso, e tutta la baldanza del genitore era sparita. Non provò quasi piacere nell’umiliarlo ulteriormente. Anzi, ora che aveva superato la fase masochistica, gli sembrava decisamente uno spreco l’aver perso un occhio per una tipologia di dolore che gli restituiva così poco piacere. L’uomo arrivò addirittura ad implorare il suo perdono, durante il processo, ed il disprezzo di Michael divenne difficile da celare. Era sicuro che gli sbirri lo avessero notato. Anche quel giorno, comunque, passò.

Michael stava seduto al tavolino del Bar con Jeko e Tommy, Quest’ultimo si era unito a loro due dopo la vicenda di Emma. Lui e Jeko sembravano andare d’accordo. Thomas era un ragazzo atletico e sportivo, decisamente attraente che mal si accoppiava ad uno sfigato dark con un occhio solo ed ad un nerd occhialuto. Però la morte della compagna ne aveva rivelato il carattere sensibile e così era nato un legame, soprattutto con Jeko.
«Almeno finché non scoprirà che è gay.» pensò Michael ma, per il momento, quella compagnia non gli dispiaceva.
«Mio padre sta praticamente mandando avanti la Cardiotech da solo» stava spiegando Jek «è dura, i clienti sono soddisfatti ma l’immagine della ditta è in frantumi.»
«Mi sembra quasi osceno pensare a queste cose» disse Tommy arrossendo «cioè, mi capite… Lei è appena…»
«Tranquillo» rispose l’altro «lo avevo pensato pure io, però papà mi ha detto che ci sono in ballo ottanta posti di lavoro. Non è giusto che saltino per la follia di un singolo uomo.»
Ci fu un momento di silenzio.
«Lei mi manca» disse Tommy.
«Manca a tutti.» mentì Michael, poi cambiò discorso:
«Di Samantha si sa più nulla?» chiese.
«Al momento proseguirà gli studi privatamente per finire l’anno.» rispose Jeko «Lei e la madre non hanno ancora deciso se trasferirsi o meno.»
«E così probabilmente perderemo anche lei.» ragionò Tommy triste.
La ragazza, dopo il primo scambio di messaggi, non si era fatta più sentire con Michael. Evidentemente lui non era in grado di offrirle il tipo di consolazione che cercava. Per un breve periodo il ragazzo aveva pensato di fare di lei la sua prossima vittima ma era giunto subito alla conclusione che sarebbe stata una dichiarazione di colpevolezza troppo evidente. Però c’era qualcosa in lui che lo spingeva a non rivolgersi verso completi estranei. Sapeva benissimo di cosa si trattava: voleva che i due sbirri capissero con chi avevano a che fare.
Aveva letto su internet che il senso di sfida era comune tra i serial killer, aveva pensato che, con l’affluire in lui dei sentimenti umani, provarlo fosse naturale. Però non riusciva a focalizzare completamente la cosa. Più che sfidare i due agenti voleva fargliela pagare, dovevano pentirsi di aver quasi rovinato il suo piano, dovevano capire che avevano a che fare con qualcosa di più grosso di loro. Era suo diritto farglielo capire, soprattutto alla donna.

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A volte il destino complotta perché i desideri si realizzino.
Erano arrivate le vacanze estive e Michael che, per ovvi motivi, non poteva più lavorare col padre era stato assunto part-time alla farmacia della città per coprire la gravidanza di una commessa. Il lavoro non gli dispiaceva e gli lasciava abbastanza tempo libero da trascorrere con gli amici e per le visite alla collina che, ormai, dovevano essere abbastanza periodiche. In breve tempo nella vita del ragazzo si innescò una piccola routine e l’estate passò velocemente portando anche un normale oblio sugli eventi che avevano sconvolto la città.
Accadde per caso, il ragazzo quel giorno si era recato sul colle ed aveva scelto di rientrare per la strada normale. Lo faceva sempre più spesso anche se allungava il tragitto: il luogo del suo primo incontro col Michael originale lo infastidiva. Quello, assieme alle «visite» gli ricordavano un dovere che, ora, gli pesava non poco.
L’aver scoperto l’estasi del delitto faceva passare in secondo piano ogni cosa, spesso si chiedeva se fosse successo solo a lui: dopotutto non era l’unico. Fu molto sorpreso di trovare una Carol barcollante all’imboccatura del sentiero. Arrancava insicura sui tacchi tra le pietre, la gonna a tubo strettissima, che si era infilata con sofferenza quella mattina, non aiutava certo l’operazione. Michael si affrettò a raggiungerla e la sorresse.
«Che fai qui?» disse la donna.
Biascicava e puzzava di gin: aveva bevuto.
«Tu piuttosto?» chiese lui «Che ti è successo?»
«Ho bevuto troppo!»
«Questo lo avevo capito!»
«Sai» Carol si era lasciata andare di peso su di lui «tuo padre mi portava qui quando le cose andavano bene tra noi.»
Tipico di Carol: ormai la voce del suo carattere si era sparsa nell’ufficio in cui lavorava ed era rimasta sola tutta l’estate. Depressione, alcool e ricordi. Michael aveva già vissuto fasi così ma per la creatura era la prima volta. Si accomodò meglio il braccio della donna sulla spalla e si accinse a portarla a casa.
In quel momento una terza figura imboccò il sentiero. Era una ragazza alta con i capelli corti, indossava una T-shirt ed un paio di pantaloni da ginnastica neri. Si fermò sorpresa dalla strana coppia. Michael la riconobbe subito: Annalise.
«Hai bisogno di aiuto?» chiese lei.
Carol la guardò in malo modo ma non disse nulla. Fu il ragazzo a rispondere:
«Nulla, solo una piccola sbronza.»
Sorrise, mentre Carol gli affondava le unghie nella spalla, e continuò:
«Mamma ed io abbiamo passato un brutto periodo, e… anche tu immagino.» disse simulando tristezza «Sono Michael, Emma mi aveva parlato di te, ti ho riconosciuta al funerale.»
Annalise notò la benda sull’occhio del ragazzo:
«Anche a me aveva parlato di te» disse con un sorriso triste «ed anche di questo posto.»
Il ragazzo improvvisò:
«Avrei tante cose da raccontarti… da raccontare… se ti va»
Carol disse qualcosa di indecifrabile e si accasciò sulla spalla di Michael. Lui continuò:
«Se… vuoi potremmo vederci qui domani. a quest’ora. Solo se ti va…»
«Grazie Michael» disse Annalise «mi farebbe molto piacere.»
Si salutarono in fretta perché i mugugni di Carol iniziavano a prender forma, e le parole che ne uscivano tendevano a non essere molto lusinghiere nei confronti della ragazza. Fu però solo dopo che questa sparì dalla vista che la donna dimostrò di non aver perso del tutto la favella:
«Sei come tuo padre» disse con disprezzo «sempre a rimorchiare puttanelle.»
«È lesbica mamma!»
«Cosa?»
«Era… insomma “l’amica” di Emma, capisci?»
Per Carol l’omosessualità era un qualcosa di vagamente reale, più una favola che altro. Rimase confusa dalla notizia e dalla schiettezza del figlio, l’alcool non la aiutava, rimandò quindi ogni pensiero e discussione.
«Portami a casa!» balbettò.
Arrivati nell’appartamento Michael portò la madre in camera e la distese sul letto. La donna crollò subito in un sonno pesante. Il ragazzo si chiese se avesse dovuto spogliarla, fu stupito dal fatto che la cosa non gli sarebbe nemmeno dispiaciuta. Rimase a contemplarla. Naso a parte non era brutta ed era stata la prima persona che lui avesse mai toccato, con un corpo umano. Questo, unito ai ricordi del vero Michael, gli faceva provare qualcosa di vago per lei (tenerezza?). Le sfiorò la gamba, immancabilmente inguainata nel nylon, ripensando a quel giorno.
Concluse comunque che, se la avesse spogliata, il mattino dopo si sarebbe sorbito una scenata. Si limitò quindi a tirarle le coperte dopo averle sfilato le scarpe. Cominciava a rinfrescare la notte.
Appena fu in camera sua, però, l’incredibile colpo di fortuna che aveva avuto si concretizzò nella sua mente. Avrebbe avuto Annalise esattamente dove voleva; senza il minimo sforzo.

Il giorno dopo Jackson stava osservando il tramonto dalla finestra della sala operativa nella centrale di polizie di Rakete. Si girò lentamente e, come da parecchi giorni a questa parte guardò O’Maley che fissava lo screensaver del suo pc senza notare nulla, persa nei suoi pensieri.
«Non troverai informazioni nuove usando la telepatia.» le disse.
La donna si scosse.
«Non riesco a farmene una ragione.»
«Nemmeno io» ammise lui «ma non possiamo nemmeno farci assorbire da un caso chiuso. Almeno finché non avremo qualche elemento nuovo.»
«Lo so. Ma non riesco a non pensare che qualcosa ci sia sfuggito.»
«Sappiamo che il ragazzo ha marinato la scuola, ma nessuno lo ha notato espressamente sui luoghi del delitto e nemmeno sugli autobus da Rakete a Middlecoast e viceversa. Certo ha parlato con l’amica della vittima, però non ha dato nessun sentore di aver intuito qualcosa.»
«Già» acconsentì O’Maley alzandosi.
«Ascolta Sara» disse Jackson «Sono convinto quanto te che Thomas Brennan non sia l’autore di quel macello, ma mi chiedo se stiamo sbagliando nel concentrarci solo sul ragazzo.»
«Lo ammetto, non è che una sensazione. Ma che altra pista abbiamo?»
«Nulla, per questo stavo pensando di acconsentire alle pressioni del capo.»
«Vuoi chiudere il caso?»
«Ufficialmente penso sia meglio, spero non ti disturbi troppo lavorarci a tempo perso.»
O’Maley si rilassò.
«Grazie.»
Fu in quel momento che il suo cellulare squillò, la donna si appartò per una breve telefonata. Quando si riavvicinò al collega era pallida.
«Annalise non è tornata a casa.»
Jackson guardò l’orologio a parete.
«Sono appena le otto, non perdiamo la calma, magari ha solo avuto un contrattempo. Andiamola a cercare.»
L’uomo era ottimista quando uscirono dalla centrale ma dovette ricredersi. Erano ormai le undici e la ragazza pareva svanita nel nulla. Ovviamente avevano perlustrato la collina palmo a palmo quando avevano saputo che la ragazza la aveva inserita nel suo percorso di jogging. O’Maley, esasperata, aveva chiesto di Michael (suscitando non poche domande tra i colleghi che, nel frattempo, si erano uniti alle ricerche). Certo, anche il ragazzo frequentava la zona e la collina: erano sulla strada che portava a casa sua sia dalla scuola che dal suo lavoretto nella vicina farmacia. Nessuno, però, lo aveva visto assieme ad Annalise, l’unica informazione fuori dall’ordinario era quella di una commessa che, due giorni prima, lo aveva visto sorreggere la madre ubriaca.
Nei giorni successivi la ragazza non riapparve né si ritrovò il suo corpo. L’ipotesi più accreditata, nonché la più logica, era quella di un rapimento: i genitori erano molto benestanti.
«Sto cominciando a credere che abbiano ragione» disse Jackson alla collega.
Erano nel loro solito pub, seduti ad un tavolo appartato.
«Io non so che pensare: non riesco a togliermi Michael dalla testa ma sono troppo coinvolta.»
«Far sparire un cadavere non è così semplice. Anche se il ragazzo avesse trovato la famosa caverna sulla collina (che, per inciso, non esiste) i cani la avrebbero individuata.»
«Però potrebbe averla portata via.»
«Proviamo a seguire questa pista, in fondo è difficile che un minorenne sia riuscito a procurarsi un mezzo senza lasciare qualche traccia.»
O’Maley annuì pensierosa.

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