Dal 29 dicembre è disponibile su Netflix la quarta stagione di Black Mirror, la seconda prodotta dal colosso dello streaming dopo le prime due totalmente inglesi prodotte e distribuite da Channel 4.

Anche questa stagione come la terza è composta da 6 episodi di lunghezza variabile tra i 45 min e gli 80 che trattano vicende ambientate in un futuro prossimo muovendo critiche alla pervasività tecnologica nel mondo che porta un logorio dei rapporti e spinge i suoi personaggi ad azioni terribili e sconcertanti.

Se le prime due stagioni della serie ideata da Charlie Brooker erano state un fulmine a ciel sereno nel panorama della serialità televisiva, con il suo cinismo, la sua schiettezza, la crudezza e quell’ansia tremenda che accompagnava la visione di ogni episodio al cui termine lo spettatore rimaneva con un angoscia e una ferita profondissima.

L’anno scorso tutto questo si era un po’ perso, nessuno dei sei episodi era riuscito a convincere fino in fondo, certo l’approdo su Netflix ha portato Black Mirror all’attenzione del grande pubblico ma proprio per questo si è dovuta come annacquare, si è alleggerita, abbiamo avuto più episodi, abbiamo avuto il binge watching, abbiamo perso la potenza critica delle stagioni inglesi.

Questa quarta stagione riparte dalle cose migliori della terza e cerca di recuperare un po’ le atmosfere del periodo inglese cercando però di continuare a innovare e ad andare avanti.

Se infatti l’antologia si allarga a nuovi stili e generi, cosa buona e giusta per la serie se vorrà proseguire e non chiudersi in se stessa allo stesso modo le tematiche di molti episodi sanno tanto di già visto, sensazione che una serie come Black Mirror non dovrebbe mai dare.

Nel complesso tutte e sei le puntate sono godibili, tre sono anche affidate alla regia di altrettanti registi di provenienza cinematografica che nobilitano ancora di più la materia.

Jodie Foster dirige Arkangel secondo episodio della stagione, che mette al centro il rapporto madre figlia e l’educazione, quando la protezione diventa dannosa e controproducente. E ho già detto troppo. Sicuramente l’episodio migliore della serie e quello più vicino alle prime due stagioni pur riuscendo ad esprimere una propria identità stilistica forte e chiara.

John Hillcoat è il nome scelto alla regia di Crocodile terzo episodio, che proprio la regia di Hillcoat nobilita e fa apprezzare quando invece la storia è forse la più derivativa e quella in cui la sensazione di déjà vu è più forte.

David Slade ci regala una perla di regia con Metalhead, quinto episodio della serie completamente girato in bianco e nero la cui storia ridotta all’osso è forse quella più spiazzante e che ci lascia con mille interrogativi.

Il primo episodio USS Callister è proprio adatta a questo periodo in cui ci stiamo scannando su Star Wars e ci mostra come esagerare con la mania sia molto pericoloso.

Hang on the DJ vuole forse essere il San Junipero di questa stagione e per quanto a mio parere sia molto più riuscito e più emozionante non avrà il successo del sovracitato episodio, non ci sono le citazioni anni ’80 e la storia d’amore è eterosessuale quindi non ci si fanno i big likes, peccato perchè gli mangia in testa a San Junipero.

Black Museum ultimo episodio della stagione, interessantissimo per il suo essere antologico all’interno di una serie antologica, non riesce però ad incidere e si perde in un finale alquanto prevedibile.

Concludendo questa quarta stagione rappresenta certamente un passo in avanti rispetto alla terza ed è sicuramente una serie di altissimo livello, che sta cercando di evolversi e una strada per un futuro all’altezza del proprio passato ma recidendo, allo stesso tempo il cordone ombelicale.

Resta comunque l’amaro in bocca per i fan storici della serie che aspettano ancora un ritorno di fiamma sperando di aggiornare la propria top 3 degli episodi. La mia è ferma al dicembre 2014.