Episodio 6: Orrore!

Mi trovavo tra due pareti composte da blocchi enormi e squadrati. Alcuni avevano dei geroglifici incisi. Però semravano appena usciti da un terremonto perché erano parecchio disassati l’uno dall’altro. Intuivo che un tempo dovevano esser stati allineati con precisione millimetrica ma avevano un aspetto decisamente pericolante.

Il passagio in cui ci trovavamo era strettissimo, meno di mezzo metro stimai, e dovevamo camminare leggermente inclinati per non toccare le pareti con le spalle.

Zack continuava a fissare la sfera.

«Stammi vicino» disse «questo posto è molto pericoloso!»

Percorremmo pochi metri e, poi, il mio amico indicò uno stretto passaggio sul muro di destra.

«Entra svelto!» mi intimò.

Ero troppo sbigottito per far domande e mi infilai nell’anfratto. Sbucai in un luogo in penombra e, per un secondo, l’aria mi mancò: la temperatura era aumentata terribilmente.

Zack apparve dietro di me. Da un muro di assi, apparentemente solido. Appena i miei occhi si abituarono alla penombra notai che ci trovavamo in un capanno di legno e lamiera pieno di attrezzi. Tutto sembrava rivestito da un pesante strato di polvere ed una piccola finestrella senza vetro, protetta da una grata, era l’unica fonte di luce. Muovendomi feci scappare un insetto lungo parecchi centimentri. Zack mi mise una mano sulla bocca, impedendomi di urlare.

«Tranquillo, non è pericoloso. Ma non è il caso che qualcuno ci senta» mi sussurrò.

«Come… Dove cazzo siamo!» urlai di rimando.

«Calmati!» disse lui allarmato «siamo in un capanno per gli atrezzi, in un cantiere bloccato. Da qualche parte… In Egitto.»

Il mio amico parve parecchio turbato.

«Scusami» disse «sono abituato a viaggiare da solo e non ho pensato allo shock che ti avrebbe causato.»

Il vederlo preoccuparsi mitigò lievemente il mio terrore.

«Cosa è successo?» riuscii a sussurrare.

Zack si rasserenò:

«Quella che abbiamo attraversato era la Piramide. Come ti avevo spiegato è la prima grande struttura costruita dagli Atlantidei. È posa a cavallo tra la nostra dimensione e Zed e quindi non ha una forma ed una struttura tridimensionalmente spiegabile. Però i sui corridoi e le sue stanze collegano tra di loro migliaia di luoghi in tutto il mondo. Io mi ci posso orientare grazie a questa» mi mostrò la sfera.

A me pareva una semplice sfera di metallo cesellato. Lui intuì le mie perplessità.

Si sedette su una panca di assi impolverate e mi guardò attraverso le lenti.

«Io non sono completamente umano» spiegò «parecchi anni fa il mio corpo fu modificato dalle radiazioni dell’oricalco. Per questo i miei occhi sono così sensibili, è grazie ad essi che vedo gli ologrammi che quasta sfera proietta mentre per te sono invisibili.»

Mi sedetti vicino a lui.

«Zack, chi sei tu?» gli chiesi senza guardarlo.

«Sono uno degli ultimi discendenti degli antichi abitanti di Atlantide. Uno di quelli rimasti su questo piano dell’esistenza. Gli atlantidei che ora vivono in Zed nei milleni sono mutati, sono deviati. Sono diventati malvagi ed amorali, ed hanno la tecnologia ed il potere per soggiogare l’umanità. Fin’ora ne abbiamo affrontati pochissimi, ma se trovassero un passaggio od un modo per uscire in massa non credo che noi, pochi superstiti, riusciremmo a fermarli.»

«Vuoi dire che sono arrivati qui altre volte?»

«Sì ma sempre singolarmente, sfruttando distorsioni spaziotemporali e non veri e propri “varchi”, l’ulimo lo avete conosciuto come Adolf Hitler.»

Ok, se non avessi appena attraversato un corridoio egizio nascosto su un monte italiano e non fossi finito in un capanno in Africa (una scimmia stava passeggiando fuori dalla grata) non ci avrei creduto. Ma, messe così, le cose acquistavano tutta un’altra prospettiva.

«Ma allora i miei amici potrebbero essere in pericolo?» chiesi voltandomi.

«I tuoi amici sono in pericolo, ammesso che siano vivi!» disse Zack alzandosi.

Il ritorno fu un po’ meno shoccante dell’andata. Il mio amico si era caricato in spalla una pesante mazza ed a me aveva consegnato un piede di porco. Sbucammo sul Monte Corvo dalla roccia che avevamo attraversato e ci calammo nel passaggio.

Con i nostri atrezzi agredimmo i cardini della porticina che cedettero in pochi minuti. Fui il primo a vedere il nuovo panorama: un cielo plumbeo con riflessi violacei, carico di nubi da cui, satuariamente, si staccavano folgori di un azzurro intenso. Il pavimento era un enorme disco del materiale verdastro, sommità di una torre cilindrica. Su di esso erano state edificate alcune strutture, oltre al capanno da cui guardavo, tutte erette con materiali di recupero. Davanti ad una di esse, una specie di «trono» fatto con vecchie porte vidi alcune persone, riconobbi Marco e Monika. L’emozione mi sopraffece e, sgusciato fuori, mi diressi verso di loro. Ricordo ancora che vidi tutto come al rallentatore: sentii l’urlo di Zack, vidi gli occhi sbarrati dei miei amici ed avvertì il tonfo sordo contro il mio fianco. Qualcosa di grosso e fibroso mi aveva colpito violentemente. Il dolore mi esplose nei reni e, contemporaneamente, i miei piedi si staccarono da terra. Feci un volo di parecchi metri e mi fermai contro un basso mucchio di assi vicino al bordo della torre.

Avevo gli occhi chiusi ma lo sentii:

«Non muoverti granduomo» la voce mi pareva familiare «oppure il tuo piccolo amico farà una fine assai brutta.»

Aprii le palpebre e cercai di mettere a fuoco. Davanti a me stava qualcosa di schifoso: una specie di tentacolo scuro e viscido, grosso come un braccio, che si apriva davanti al mio viso in quattro lembi di un rosa osceno quasi fosse la parodia grottesca di un fiore. I lembi erano irti di quelli che sembravano denti e trasudavano un icore giallastro. La “gola” della cosa era un foro nodoso e nero. Sentii un rivolo caldo bagnarmi i pantaloni. Non appena riuscii a distogliere lo sguardo da quell’orrore notai che il tentacolo si collegava al braccio di una persona. Per poco non sobbalzai: era Arturo, il matto del paese. Dal braccio sinistro dell’uomo si dipanava il mostruoso tentacolo lungo parecchi metri ed abbandonato al suolo come una corda. Solo l’ultimo segmento, con la mostruosa bocca si alzava dritto, simile ad un cobra, davanti a me. Arturo non mi guardava, fissava Zack con un ghigno malefico. Il mio amico era fermo e silenzioso davanti alla catapecchia da cui eravamo usciti. Arturo continuò il suo discorso rivolto verso di lui:

«Così tu saresti l’uomo di Atlantide, devo dire che sono quasi deluso, sembri così innocuo…» gli occhi dell’uomo roteavano.

«Ma noi lo sappiamo che non sei innocuo! Non fingere!» urlò.

Zack cercò di parlamentare:

«Ascolta…»

«Silenzio!» intimò Arturo «I padroni sono stati chiari: sei pericoloso e devi morire!»

Fu un attimo: i lembi del tentacolo si richiusero di scatto e la cosa saettò come un serpente verso Zack. Si avvolse attorno alla sua gamba e, con una forza mostruosa, lo scaraventò nel vuoto. Il mio amico precipitò dalla torre senza emettere un suono.

Non ebbi il tempo di reagire, non ebbi il tempo di gridare, non ebbi il tempo di fare nulla. Il tentacolo si avvolse anche attorno alla mia gamba, venni trascinato verso destra e scaraventato con forza minore. Mi fermai tra il «trono» ed un’altra struttura simile ad una balaustra, vicino al bordo della torre. Arturo incombeva su di me. Poi si girò verso i miei amici ma il tentacolo continuava a puntarmi, come se mi vedesse.

«Sembra che avremo un nuovo aiutante!» disse loro «Dovreste esser contenti!».

L’uomo si bloccò, come in contemplazione, ma nessuno dei ragazzi osava muoversi ed io, sinceramente, non avevo idea di cosa fare. All’improvviso un piccolo rumore attirò la mia attenzione. Sbircia dal bordo con la coda dell’occhio e per poco non urlai: Zack si stava spostando sul bordo della Torre simile all’Uomo Ragno. Il suo orologio aderiva ad essa, lo aveva girato contro il polso, e, nell’altra mano, utilizzava il cilindro-chiave con cui aveva aperto la Piramide. I due manufatti fungevano come da magneti e li stava usando per risalire lentamente.

Arturo si stava girando, capii che spettava a me distrarlo. Cercai di parlare:

«Cos’è tutto questo?» chiesi facendomi coraggio.

Il tentacolo saettò verso di me, la sua «bocca» si chiuse con forza contro la mia gambe strappandomi un grido di dolore, quando mollò la presa il sangue colava a rivoli.

«Cos’è tutto questo “mio signore”!» urlò lui «Impara come ci si rivolge a colui che servirai!»

Lo guardai terrorizzato:

«Certo mio Signore.» balbettai con le lacrime che scendevano.

«Bene.» disse «”Questo” è il mio regno. I padroni mi hanno concesso di regnare sopra la Torre, tutto quello che vedi è mio!»

Era pazzo, però dovevo farlo parlare. Dovevo dare il tempo a Zack di coglierlo di sorpresa, di colpirlo a tradimento mentre io lo distraevo. Una voce tonante (ed un po’ ridicola) interruppe i miei disperati pensieri:

«Ok gaglioffo, è ora della resa dei conti!»

Alla faccia della sorpresa! Zack si stagliava davanti al «trono» con le braccia conserte in posa plastica. Arturo era allibito:

«Come hai fatto a…» iniziò, ma si fermò subito «Non importa!»

Il tentacolo scatto, Zack premette un bottone sul suo orologio e la cosa si fermò a pochi centimetri dalla sua faccia. Rimase ferma così per una frazione di secondo, poi crollò a terra, inerme, priva di vita. Doveva pesare parecchie decine di chili perché Arturo non riusciva a muoversi e si era dovuto inginocchiare per reggerne il peso.

Zack afferrò una stretta asse dal trono e la divelse. Si Avvicinò con calma all’uomo:

«Si chiamano “biomacchine”» gli disse «sono biologiche ma si controllano tramite codici, e si possono spegnere come vedi.»

Arturo lo fissava terrorizzato, lui continuò:

«Sai, io sono per la libertà di scelta: non ti biasimo per esserti schierato con loro ma…» Zack mulinò l’asse che teneva in mano e questa si schiantò contro la faccia dell’uomo che stramazzò a terra «… i ragazzini devono starne fuori!»

Il mio amico mi aiutò ad alzarmi e poi corremmo a soccorrere gli altri. Fu allora che realizzai che Giuliano mancava all’appello. Quando chiesi loro spiegazioni fu Marco a parlare:

«Quando arrivammo qui lui ci ha preso, ci portava poco cibo ed il materiale e noi dovevamo costruire queste “cose”. Giuliano si sentì male, il secondo giorno. Il terzo non si muoveva più e lui lo portò via.»

Zack si tose gli occhiali e si massagò il naso, mi guardò con tristezza:

«Allergia all’oricalco. È rara, e mortale.»

Le lacrime stavano per ricominciare a scendere ma un grido strozzato ci fece girare. Il tentacolo si era ripreso, ma non sembrava in grado di muoversi come prima. Stava trascinando Arturo verso il bordo della torre.

«Aveva un sistema di emergenza!» urlò Zack e si precipitò verso di lui, io lo seguii ma arrivammo tardi.

La cosa trascinò l’uomo oltre il bordo. Lo vedemmo cadere per parecchi metri ma, ad un certo punto, dalla torre partì un fulmine azzurrino che lo colpì incenerendolo.

«Un fulminatore!» esclamò il mio amico «Probabilmente serve per evitare che si scalino le pareti. Qualche metro di caduta in più ed avrei fatto la stessa fine!»

Poi mi guardò:

«Mi dispiace per il tuo amico, ma devi farti forza: dobbiamo portare a casa questi ragazzi.»

Con fatica facemmo uscire i malcapitati. Zack fu l’ultimo ad emergere dall’albero. Dallo zaino prese una piccola sfera, simile a quella che usava per orientarsi nella Piramide, e la lasciò cadere nell’apertura. Dei piccoli fulmini porpora crepitarono per qualche secondo.

«Ora il passaggio è chiuso dall’esterno!» ci disse «Nessuno lo potrà usare per uscire».

Dal suo zaino prese una bottiglia d’acqua e ne diede ai ragazzi stremati. Anche io avevo la gola secca ma, quando Monika me la passò, Zack la prese e la messe via. Poi mi medicò la gamba.

«Dobbiamo procurarvi una scusa plausibile» disse ai miei amici.

Sfruttando la Piramide sbucammo in un luogo a pochi chilometri dal monte, vicino ad una strada. Appena fuori Zack premette un bottone sul suo orologio e tutti i miei amici, all’unisono, caddero a terra.

«Che cosa gli hai fatto!» urlai.

«Stai calmo.» mi rispose «Nell’acqua c’erano delle biomacchine, sono innocue ma agiranno sul loro cervello. Si sveglieranno tra un paio d’ore e non ricorderanno nulla degli eventi degli ultimi mesi. La cosa rimarrà un bel mistero per i soccorritori ma, pian piano, scemerà e loro non si porteranno questo trauma addosso.»

Era sera quando salimmo sulla Uno. Ero molto triste per Giuliano.

«Zack, quella bottiglia la avevi portata per me vero?»

«Sì.»

«Volevi farmi dimenticare qualsiasi cosa avessi visto?»

«Sì.»

«E perché non lo hai fatto?»

«Perché ho capito che, a volte, un amico vale più di mille tecnologie, per aiutarti.»

Avevo perso un amico, ma ne avevo trovato un altro. Coraggioso, un po’ idiota e con poteri incredibili. La vita si stava facendo interessante.