Episodio 1: I ragazzi scomparsi

Gli anni ’80 e ’90.

Essere un nerd negli anni ’80 e ’90. Ad oggi è quasi un mito, c’è gente che finge di esserlo stato. Vecchi compagni di classe che, a scuola, ti salutavano con un simpatico «se trovi un computer con l’uccello ti fai inculare» ora ti incontrano per strada e ti parlano dell’Amiga. Vestiti in un modo che ti avrebbe fatto vergognare, anche in quegli anni.

Ora, tranquillizzatevi, non vi voglio imbottire di luoghi comuni sulla difficoltà dell’esser un nerd. O meglio, lo farò e godrò nel farlo. Ma non sarà un godimento fine a sé stesso. Servirà per raccontarvi una storia. La storia di Zack.

Però per parlarvi di lui e di come lo conobbi è indispensabile farvi capire come vivevo allora. E come vivemmo tutti quegli avvenimenti. Quindi mettetevi comodi.

Dicevamo che non era facile essere un nerd allora, frequentare la quinta elementare di un paesino di montagna. Insomma io mi facevo le storie sui librigame di Lupo Solitario e cercavo di capire come sarebbe stato giocare a D&D, i miei compagni invece pensavano alle macchine radiocomandate ed a quello strano gioco chiamato “calcio”. Certo ci sarebbero state delle cose che avrebbero potuto unirci, la bicicletta ad esempio. Le mitiche bicicross assettate come un’Harley con un enorme leva del cambio che sporgeva fallicamente dalla canna ed un peso paragonabile a quello di un trattore. Le avevamo tutti ma la tendenza dei paesi di montagna ad essere in salita ne limitava non poco l’utilizzo ed il relativo aiuto sociale.

A questi ostacoli morfologici si univa il fatto che passavo i miei pomeriggi con una nonna amabile ed iperprotettiva che, furbamente, aveva scoperto che bastava un libro di Howard ed una buona scorta di Mars per farmi restare a casa a portata d’occhio. Devo dire che la mia forma fisica subì un lieve tracollo in seguito a questo, seppur amorevole, trattamento.

Le cose cambiarono un poco quando Giuliano, un mio compagno di classe, si trasferì vicino alla casa di nonna. Essendo l’unico altro bambino nel raggio di un chilometro finimmo inevitabilmente per passare assieme i pomeriggi. Lui era magro e molto sportivo ma non era del tutto privo di fantasia. Non gli fu difficile scambiare la corsa e l’Hockey con cacce immaginarie ad orchi e goblin nei boschi che circondavano le nostre case.

Abitavamo a nord del paese e praticamente eravamo a due passi da boschi e prati. Luoghi ben tenuti ed attraversati da strade e sentieri e costellati di panchine e tavoli da picnic. Ovviamente tra una strada e l’altra c’erano posti pericolosi, fossi, formazioni rocciose, che giuravamo di evitare. Ed, altrettanto ovviamente, erano i nostri luoghi di gioco preferiti.

Due in particolare erano le nostre mete quasi quotidiane. Il primo era il Monte Fato. Sul ciglio di un dirupo, proprio a picco sulla casa della nonna si ergeva un grande punto panoramico dotato di una costruzioni in travi vagamente simile ad una pagoda orientale chiamato appunto «la pagoda» dai paesani, da sempre famosi per la loro fantasia ed originalità. All’epoca della mia nascita questo baluardo della bella vista era stato dotato di una via d’accesso altrettanto panoramica consistente in un’erta scalinata in cemento ancorata direttamente alla roccia sottostante. Questo perché la via originale che univa il paese alla pagoda, salendo tortuosa su un fianco del dirupo, veniva attraversata da un canale di scolo, a cielo aperto, che ne rendeva difficile la manutenzione. I due ponticelli di legno, che consentivano al sentiero di attraversarlo, infatti tendevano a marcire per effetto dell’acqua e della neve che, in inverno, vi si accumulava abbondante. Inoltre case ed alberi rendevano alquanto cieca la salita.

All’epoca dei fatti, quindi, quest’ultimo percorso era stato chiuso ed era in decadimento. Si poteva accedervi scavalcando uno steccato posto al suo ingresso. Per noi era un vero e proprio mondo fantasy, Monte Fato appunto, dotato di ponti pericolanti e di un fiume impetuoso. Inoltre, per le succitate case era praticamente invisibile a chiunque, essendo posto a nord ed infossato sotto le rocce le abitazioni non avevano finestre su quel lato.

Il nostro secondo luogo di gioco, Arborea, era un avvallamento posto tra una strada di campagna ed un enorme prato da pascolo. Era protetto da grossi abeti che, per la natura del terreno, avevano sviluppato dei rami molto bassi e che, quindi, erano facilmente scalabili. Uno di essi ne protendeva uno, grosso buoni venti centimetri, proprio attraverso l’avvallamento in un fantastico ponte sospeso. A monte la piccola valle sfumava in un boschetto di noccioli molto fitto che era l’ideale per costruire dei rifugi, ne erigemmo dodici in totale. A valle, invece, prima di sfociare sulla strada le pareti si alzavano di buoni quattro metri, e quella di sinistra era rocciosa, l’ideale per (pericolose) scalate.

I nomi, ovviamente, li avevo scelti io.

I nostri allenamenti in questi luoghi resero rapidamente meno sferico il mio aspetto e la mia ritrovata forma fisica ci consentì di spingerci anche un po’ più lontano, verso il paese. Questo ci portò a conoscere Marco ed i suoi amici. Di un anno più grandi di noi erano famosi scavezzacollo, ma non bulli o prepotenti. Ci accolsero senza problemi tra di loro. Purtroppo la mia irriducibile nonna e la mamma di Giuliano, che non era meno apprensiva, furono abbastanza irremovibili sul non lasciarceli frequentare. Questo causò una profonda delusione in entrambi. Io, però, ebbi anche un segreto sollievo essendo il più sfigato del gruppo con la bici e nelle acrobazie. Con Giuliano sopperivo alla mia mancanza di doti atletiche mettendoci la fantasia e quindi tra noi due c’era una sorta di «equo scambio», con loro invece mi sentivo letteralmente l’ultima ruota del carro. Ciononostante il dispiacere fu parecchio.

La nostra delusione aumentò alla fine dell’estate quando Marco, in una delle sue ormai sporadiche visite, ci invitò alla scampagnata che stava organizzando. Il programma era davvero da paura: alla mattina si sarebbero spinte le biciclette fino alle pendici del «Monte Vecchio», una montagnola ad ovest del paese su cui la Sip aveva installato un ripetitore. Pedalare in salita con le succitate bicicross era qualcosa di alieno ed improponibile, ovviamente.

Terminata la faticosa performances si sarebbe banchettato su uno dei numerosi prati lì in giro, con panini e Coca Cola portati da casa. Qualche tiro a pallone nel pomeriggio e poi un’emozionantissima discesa lungo la stradina asfaltata che riportava in paese.

L’evento era troppo ghiotto, soprattutto per uno sportivo come Giuliano, che tanto disse e tanto fece da riuscire a strappare il permesso a sua madre. Mia nonna, invece, fu irremovibile. I miei genitori non mi spalleggiarono minimamente a causa di un dissidio con una vicina di casa, involontariamente bersagliata da un aereo giocattolo della Quercetti lanciato dal sottoscritto. Ad onor del vero fui assai maleducato e mi rifiutai di scusarmi, antipatie da bambino. Quindi, il giorno della gita, mi dovetti accontentare di vedere Marco, Giuliano, Walter e Monica partire baldanzosamente alla volta della montagna. Monica era la ragazza del gruppo, di femminile aveva poco, tozza e muscolosa gareggiava alla pari con Marco, che era una vera e propria forza della natura. Ovviamente, come tutte le ragazze tozze e muscolose degli anni 80 divenne una gnocca da paura alla maggiore età, ma questa è un’altra storia e la racconterò un’altra volta (forse).

Walter era un po’ lo sfigato del gruppo (prima che arrivassi io) tozzo ma forte come un torello. Ed eccoli spingere le loro biciclette ed allontanarsi sempre più.

Ovviamente quel pomeriggio la voglia di leggere non la avevo proprio. Passai un paio d’ore a guardarmi i cartoni di Odeon TV, Blackstar, ovvero il tarocco dei Master of The Universe. Poi, in preda all’astio verso la nonna, uscii a fare quattro passi. Non mi recai nei nostri luoghi di gioco, da solo non c’era molto gusto, e mi limitai a gironzolare tra le case. Fu passando davanti ad un cortile di un piccolo appartamento, solitamente sfitto, che la vidi: la moto più fantastica che un ragazzino potesse desiderare.

Lo so che vi starete immaginando una Harley megacromata od un bolide tipo quello di Valentino Rossi. Niente di tutto questo. Era un «plasticoso» enduro come andavan di moda in quegli anni. La base sembrava quella di una Pegaso della Aprilia, oppure di una Honda Dominator ma era stata pesantemente customizzata. Il muso era stato allungato ed aveva un faro a scomparsa (chiuso), Era completamente nera lucida con strisce bianche che correvano lungo le carene ed un cupolino di plastica trasparente. Ricordava molto la moto della serie televisiva «Street Hawk» che, allora, ci faceva impazzire. Rimasi a guardarla per quasi un’ora, chiedendomi a chi appartenesse ed immaginandomici in sella mentre stupivo Giuliano dicendogli, attraverso la radio del mio casco:

«Norman mandami in hyper!»

Tornando a casa il mio umore era un po’ migliorato. Perlomeno avrei avuto qualcosa da mostrare a Giuliano al suo ritorno. Qualcosa che gli avrebbe impedito di dilungarsi su quanto fossa stata figa la discesa. Ma Giuliano non tornò.

Nessuno di loro tornò quel pomeriggio.