Adesso possiamo dirlo con sicurezza: “Le Avventure di Tintin – Il Segreto dell’Unicorno” di Steven Spielberg è la miglior trasposizione del personaggio di Hergé che potessero realizzare. Senza ombra di dubbio.

E chi conosce il fumetto, semplicemente, non può che convenire.

La fedeltà rispetto al materiale originale è assoluta e il modo in cui hanno shakerato “Il Granchio d’Oro” e “Il Segreto del Liocorno” è preciso e ingegnoso (menzione d’onore ai tre sceneggiatori, due dei quali – Edgar Wright e Steven Moffat – sono delle garanzie, mentre di Joe Cornish conosco poco e almeno il suo “Attack the Block”, così tanto scampanato, non mi ha detto proprio niente).

E’ rimasto intatto lo spirito delle storie di Hergé, dove ad emergere di prepotenza è il senso dell’avventura, dei misteri da svelare con ritmo forsennato, in cui i personaggi sono sempre in movimento e presi in un’azione particolare.

Da “Il Granchio d’Oro” è stato selezionato il primo incontro tra Tintin e il capitano Haddock; il tradimento di Hallan, il secondo del capitano (che nel film diventa uno degli sgherri al servizio di Sakharin); la fuga dalla nave con la scialuppa di salvataggio; tutta la scena con l’aeroplano; la parte ambientata nel deserto e, con le dovute e necessarie modifiche, quella tra le strade di Bagghar. Mentre “Il Segreto del Liocorno”, che rappresenta la spina dorsale del film, fornisce il prologo al Mercato Vecchio (dove il Tintin cinematografico si fa disegnare una caricatura da un’artista di strada fin troppo somigliante ad Hergé, in quella che è a tutti gli effetti una meravigliosa introduzione del protagonista dopo dei bellissimi titoli di testa) con tanto di borseggiatore cleptomane e tutta la parte inerente al mistero del Liocorno e alla storia degli antenati di Haddock e Sakharin.

Fedeltà assoluta, personaggi che rispecchiano completamente gli originali. Vedi il film ed hai la sensazione fortissima di ammirare il fumetto che prende vita sullo schermo. Detto ciò, non possiamo neppure minimizzare l’apporto personale di Spielberg, che inserisce questi omini tratteggiati con la linea chiara in atmosfere da thriller degne dei bei tempi andati (impossibile non sentir rievocare, qua e là, il sacro nome di Alfred Hitchcock), e cerca, con la sua regia morbida e avvolgente, di diminuire la distanza tra gli spettatori e i personaggi: insegue ogni sussulto espressivo, si avvicina per cogliere primi piani eloquenti, tutta una serie di finezze registiche che cercano di restituire, non tanto con l’aggiunta di parole in più, una terza dimensione non soltanto visiva a Tintin e compagnia, figure fumettistiche non ricordate certo come modelli di fine introspezione. Del resto a Hergé interessava il viaggio avventuroso, né è testimone la stessa composizione degli elementi interni della vignetta. Un linguaggio che invece di diventar datato (come è accaduto in altre opere) è assurto a segno inconfondibile dell’autore: personaggi disegnati a figura intera, in cui il piano medio rappresenta il massimo della vicinanza consentita, e grandissimo senso del movimento (ha ragione chi sostiene che le sue pagine sono quasi dei perfetti storyboards per il cinema). Quasi una volontà di rimpicciolire le figure per far meglio spiccare la grandezza dell’evento in cui saranno coinvolte.

Ma dicevamo dell’apporto di Spielberg no? Oltre ad inventarsi dei cambi di scena ricchi d’armonia e fantasiosi, tira fuori delle scene d’azione forsennate che ti inchiodano alla poltroncina del cinema. E da uno dei padri di Indiana Jones non potevamo aspettarci nulla di meno.

Il cast in performance capture crea il miracolo di trasferire in un mondo realistico questi personaggi stilizzati con il loro design iconico. Il migliore della comitiva, neanche a dirlo, è ancora una volta Andy Serkis, con il suo capitano Haddock addirittura più Haddock del fumetto. L’impegno, la dedizione totale che quest’attore mostra ogni volta che presta le sua abilità al mocap sono encomiabili. E’ anche grazie a lui se i personaggi digitali hanno acquistato importanza pari rispetto a quelli tradizionali. Stiamo sempre a cercare il nuovo nell’arte cinematografiche e secondo me non c’è niente che possa rivaleggiare con questa innovazione: le creature fantastiche a base di pixel che vibrano d’intensità come i migliori personaggi in carne ed ossa. Ok, non sempre siamo dinnanzi a risultati memorabili ma sicuramente adesso agli attori vengono dati i mezzi adatti per interpretare (nel senso più completo del termine) ogni personaggio, oltre i confini di qualsiasi limite fisico.

Weta Digital. Il miracolo. Se non si tratterà di un capolavoro drammaturgico questo film è un capolavoro visivo. La Weta cerca sempre di superarsi e sempre pare riuscirci. La meraviglia tecnica a cui assistiamo è difficile da descrivere, l’unico modo saggio di farlo e consigliare di andare e vedere con i propri occhi (magari in 3D, visto che una volta tanto è di gran livello, privo persino di quei problemi di perdita della luminosità che troppo spesso si riscontrano).

Questa collaborazione strettissima tra i due eterni bambini Steven Spielberg e Peter Jackson è partita con il piede giusto. Il film è un’avventura coinvolgente e raffinita, realizzata allo stato dell’arte della tecnica, che ha forse l’unico limite di essere un po’ troppo vecchio stile. Da amante del fumetto di Hergé non posso che apprezzare e ringraziare ma francamente non so se il resto del pubblico farà altrettanto. Parliamo di materiale particolare, di personaggi che si apprezzano meglio se si dispone di un po’ d’ingenuità infantile e che forse sono un po’ lontani dai gusti odierni.

Non so quale sarà l’esito del film. Spero venga apprezzato e incassi bene, perché mi dispiacerebbe assai non poter godere di un nuovo capitolo.

httpv://www.youtube.com/watch?v=DCzj8D7-R2U