Chi è fan di George A. Romero e in particolar modo dei suoi film sugli zombi, ormai diventati vere e proprie pietre miliari imitatissime, saccheggiate e riscritte in più di un remake, ben saprà che il morto vivente non rappresenta assolutamente il mostro o l’entità malvagia da combattere che sta al centro della vicenda, lo zombi in fondo non obbedisce che ai propri istinti basilari (uno su tutti la ricerca del cibo, impulso del tutto inutile per il loro sostentamento, ma anche automatismo che ben rappresenta l’idea del sopravvivere, che simbolizza l’imitazione della vita, riportata ad atti essenziali, come è quella degli zombi. Almeno fino a “Il giorno degli zombi” e a “La terra dei morti viventi”, titoli in cui Romero introduce inedite figure di morti viventi evoluti, detentori di residui di umanità non soltanto spontaneamente simulata, esseri che nello scenario apocalittico dei racconti assurgono a nuova specie dominante della Terra), non contempla l’avidità, l’egoismo, la volontà di sopraffazione che spesso porta alla distruzione dei propri simili. Tutto questo è appannaggio dell’uomo, del vivo vivente, la creatura che è il vero e proprio mostro nei film di Romero, la cosa da vivisezionare e smascherare con impietosa ferocia assieme alla società che ha edificato.

Gli zombi, quindi, spesso non sono che un (affascinante, geniale) pretesto per parlare dell’uomo e della direzione che sembra aver preso nella nostra civiltà contemporanea. E dato che Romero non sta tanto dalle parti dell’ottimismo, questa direzione pare portare dritto in luoghi tutt’altro che piacevoli e riconcilianti, dove il valore di pochi è soverchiato dall’iniquità di molti.

Diary of the dead” non è altro che un nuovo tassello della riflessione di Romero sull’uomo civilizzato, in più si avvale del tipo di espediente narrativo da “cinema verità” che già fece la fortuna di Ruggero Deodato col suo “Cannibal Holocaust” (1979) e tornato prepotentemente di moda grazie all’exploit di “The Blair Witch Project” e a quelli più recenti di “Rec” e “Cloverfield” (citerei persino il contraltare demenziale e satirico di “Borat”)…

Questa volta l’attenzione di Romero si sposta sui moderni mezzi di comunicazione, in particolare sull’informazione che passa attraverso il web, su tutti quei contenuti prodotti dagli utenti che formano un grande scambio partecipativo di dati e filmati da ogni angolo del pianeta. Il film sembra dirci quanto questa grande rete possa trasformarsi in una nuova fonte di alienazione, sembra dirci come l’atto del riprendere e il suo prodotto sia diventato il solo modo per dare legittimità al reale (per la serie “se quella tal realtà non è possibile osservarla e mostrarla, allora non possiamo dire che esista”), sembra dirci come il desiderio ossessivo di far parte di questa grande maglia annichilisca persino noi (per la serie “troviamo la nostra identità e la forma della nostra esistenza soltanto nel numero di visitatori che il video di una nostra esperienza riesce a radunare”), sembra dirci tante altre cose, assai interessanti e significative, ma per evitare di far troppi sofismi ed elucubrazioni preferisco lasciare spazio all’eloquenza di Deb, la protagonista forte e consapevole della storia, trascrivendo alcune delle sue frasi chiave:

L’informazione tradizionale era sparita, con tutto il suo potere ed i suoi soldi. Ora ci siamo solo noi, i blogger, gli hackers e i bambini…più voci ci sono, più grande è la confusione. La verità diventa sempre più difficile da trovare. Alla fine tutto diventa solo rumore

Alla fine anche noi siamo entrati a far parte del flusso continuo di informazioni. E’ strano come guardando le cose, vedendo attraverso una lente o un vetro, magari colorato di rosa o annerito, alla fine diventi immune. Dovresti essere coinvolto, ma non lo sei. Pensavo che la cosa valesse solo per voi, che ci guardate, ma non è così, vale anche per noi, quelli che riprendono le scene. Siamo diventati immuni anche noi, vaccinati, così che qualunque cosa accada intorno a noi, non importa quanto orribile, noi tiriamo dritto e basta, un giorno dopo l’altro…

E se pensate che il film sia palloso o robe del genere, vi sbagliate di grosso. Non scordatevi mai che Romero è prima di tutto un grande regista di genere, estremamente attento alla costruzione di una storia e al modo in cui deve essere caricata di emozione. Il viaggio dei personaggi è ricco di tappe e situazioni drammatiche e impressionanti, è generoso di splendida tensione, raccapriccio e azione, senza dimenticare accenti di vitale e perversa ironia, in puro stile Romero. Segnalo alcuni momenti stupendi che ci fanno comprendere quanto il regista sia qui in ottima forma : la fermata all’ospedale, dove i ragazzi scoprono quanto in una situazione imprevedibile le loro reazioni possano diventare così sorprendentemente drastiche; la sosta a casa di Deb, con una crudelissima, angosciante e terribile sorpresa; la scena finale della mummia all’interno del boschetto, geniale, in cui la realtà si sovrappone, con un meraviglioso e destabilizzante cortocircuito, alla finzione della sequenza mostrata a inizio pellicola (in cui osserviamo, in un film nel film, un classicissimo inseguimento mostro-donzella urlante); la morte (ATTENZIONE ALLO SPOILER!) di Jason Creed, il nostro beneamato regista e operatore ossessivo, la cui identità e umanità si sono ormai disciolte all’interno della sua nuova natura di obiettivo umano, che vuole persino immortalare il momento definitivo.

Buona prova del cast, aiutato anche da personaggi convincenti, e ottimi e fantasiosi effetti splatter, resi ancor più tracimanti da un buon uso del digitale.

Con questo film George A. Romero si riconferma il grande autore horror che è, capace sì di mostrare tanto sangue, frattaglie e schizzi di pezzi di cervello, ma anche abilissimo nello stimolare la nostra, di materia grigia.

httpv://www.youtube.com/watch?v=JS_JQsljVlI